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Palazzo Chigi

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A chi ha la memoria corta ricordiamo che il Comune di Napoli nel 2012 era già praticamente in dissesto. Eravamo nel pieno della Grande Crisi dei debiti sovrani. Tribolavano anche un paio di regioni spagnole e si decise di farle fallire. Da noi, invece, uno Stato super indebitato fece nuovo credito al Comune di Napoli in cambio di piani di rientro con obiettivi intermedi. Il primo prevedeva alienazioni immobiliari per il valore di 1 miliardo e se ne fecero per 10 milioni. Si è prevista perfino la vendita di Palazzo San Giacomo, la sede del Comune, che è come se la Repubblica italiana mettesse in vendita Palazzo Chigi o il Quirinale. Perché ha ragione l’ex ministro Manfredi a dire le cose come stanno e perché bisogna evitare che le nuove ipocrisie su appalti e modalità di gestione portino all’insuccesso del Recovery e alla certificazione del “dissesto” del Paese

Dire una cosa e farne un’altra è stata la stella polare dei comportamenti pubblici del Paese negli ultimi venti anni. La cabina di regia a Palazzo Chigi e la struttura di monitoraggio e di rendicontazione alla Ragioneria generale dello Stato sono i due grandi motori di una nave Italia che decide di solcare il mare aperto del nuovo ’29 mondiale con squadra nuova e regole nuove. Perché attuare il Recovery Plan significa fare l’esatto contrario di quello che si è fatto fino a oggi visto che i conti con la realtà non sono più rinviabili.

Non ci stancheremo mai di ripetere che il Pd di Letta avrà un grande futuro solo se sarà la bandiera del cambiamento del governo Draghi “senza se e senza ma”. Inseguire la Lega e ripeterne gli errori demagogici può solo accelerare la corsa verso il precipizio che si vuole fermare. Al Pd servono atteggiamenti lineari e trasparenti, ancorché impopolari, come quelli assunti dall’ex ministro Manfredi quando ha detto che se non si affronta il problema del debito-monstre del Comune di Napoli non si eleggerà un nuovo sindaco, ma il curatore fallimentare della città.

A chi ha la memoria corta ricordiamo che il Comune di Napoli traballava dal 2011 e che nel 2012 era già praticamente in dissesto. Eravamo nel pieno della Grande Crisi dei debiti sovrani, l’Italia era alle prese con il suo Cigno nero, lo spread schizzava alle stelle in casa nostra e in Spagna. Qui le stesse tribolazioni del Comune di Napoli le ebbero un paio di regioni spagnole, ma si decise di farle fallire. Da noi, invece, no perché si temeva che il default di grandi Comuni avrebbe minato definitivamente la credibilità del Paese che stava rischiando pesantemente come Stato sovrano. Si decise, dunque, che uno Stato superindebitato facesse nuovo credito al Comune di Napoli e a altri Comuni in cambio di piani di riscossioni e di tagli segnati da obiettivi intermedi annuali. Con tanto di clausola che stabiliva che, in caso di doppia inosservanza degli obiettivi, la Corte dei Conti fosse tenuta a imporre la dichiarazione di dissesto.

Da allora sono seguite una serie di norme “salvaComuni” e una serie di piani di rientro. Il primo prevedeva alienazioni immobiliari per il valore di un miliardo e se ne fecero per 10 milioni. Se ne è poi fatto un altro di piano di rientro che torna a prevedere perfino la vendita di Palazzo San Giacomo, la sede del Comune di Napoli, che è come se la Repubblica italiana mettesse in vendita Palazzo Chigi o il Quirinale. L’ultima legge con queste normette “salvaComuni” fu fatta con scadenza 30 giugno perché le elezioni si dovevano tenere il 13 giugno, ma il Covid si è messo di traverso e ha fatto lo scherzetto di spostare il voto in autunno. Per cui è riesploso il problema.

Anche qui, allora, che si fa? Si vuole ipocritamente continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto o si vuole cominciare a dire la verità ai napoletani? Si possono fare anche scelte impegnative per evitare il dissesto, ma si vogliono assumere comportamenti nuovi sì o no? O si vuole viceversa continuare a annotare di anno in anno crediti inesigibili e a chiedere puntualmente la solita mortificante perequazione? Si vuole continuare a mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi per scoprire che gli 1,5 miliardi di buco sono diventati 5, una cifra davvero enorme per una città, anche se questa città si chiama Napoli?

Risparmiateci almeno “Sì, ma” perché questi teatrini della politica raccontano l’ipocrisia di un Paese che non vorremmo più vedere. Soprattutto oggi che si decidono le modalità di gestione del Recovery Plan. Un’occasione irripetibile che, però, in caso di insuccesso, si trasformerà nella certificazione del “dissesto” del Paese.


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