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Un palazzo di Kiev colpito dalle bombe russe

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Non basterà un accordo sulla Crimea per mettere tutto alle spalle perché la Russia troverà altri modi per proseguire il suo espansionismo fuori dalla storia, nutrito di pulsioni autocratiche e radici dittatoriali. L’Europa dovrà superare non per finta i suoi egoismi nazionali e dovrà ripensare il suo ruolo. Gli Stati Uniti a loro volta dovranno cambiare e dovrà cambiare il loro rapporto con l’Europa a partire dall’economia. Draghi tutte queste cose le capisce per l’esperienza di governo della moneta europea che lo ha trasformato perché lo ha messo a contatto con le tante facce della lunga transizione che abbiamo davanti, con il mondo dell’Europa, con il mondo delle altre grandi potenze, con il mondo della finanza internazionale. La grande trasformazione in atto ci dice che non possiamo più fare i furbetti, dobbiamo cambiare e sopportare tutti i costi del cambiamento. Bisogna che Draghi impegni una parte rilevante del suo tempo perché un sistema di pensiero italiano all’altezza della storia diventi un’idea diffusa. Le rivoluzioni non si fanno mai da soli

Siamo alla sfida del nuovo mondo. Draghi ha guidato l’Italia nell’anno peggiore della sua storia repubblicana, sotto i colpi della crisi pandemica e del nuovo ’29 mondiale, e ha realizzato una crescita del prodotto interno lordo (Pil) del 6,6% portando il debito/Pil al 150,4% contro il 160% previsto dal Conte2 e il 155,3% del 2020. Con questi numeri il governo di unità nazionale può dire, a ragione, di avere scelto la strada giusta del green pass riaprendo in sicurezza l’economia prima degli altri Paesi europei.

Ora Draghi si appresta a guidare l’Italia nel nuovo mondo dopo la guerra in Ucraina, il disegno economico-militare autocratico sovietico che affonda le radici nelle peggiori pulsioni dittatoriali, avendo l’intelligenza di capire che la sfida riguarda la storia.  Che la transizione che abbiamo davanti sarà lunga e complessa e che deve essere governata con lo stesso senso della storia che ebbe in passato De Gasperi, ancora una volta richiamato. Che oggi c’è già più Europa, più forte, più reattiva e che Putin ha sbagliato i suoi calcoli, ma che il cammino sarà lungo perché bisognerà costruire una difesa comune, un’area di stoccaggio comune del gas, nuove regole di investimenti compatibili con i tempi che viviamo e l’ambizione di Europa che abbiamo.

Bisogna che tutto questo avvenga perché l’attacco che non l’Ucraina ma l’intero mondo libero sta subendo è stato premeditato da Putin nei minimi dettagli. Prima ha usato la leva delle materie prime da cui siamo dipendenti massificando gli utili, aumentando e proteggendo parzialmente le riserve della banca centrale russa. Poi ha sferrato un attacco al cuore dell’Europa che ci porta indietro di ottant’anni e nessuno può voltarsi dall’altra parte. L’Italia non lo farà, l’Europa neppure. La guerra finanziaria portata in casa dei russi congelando le riserve estere della loro banca centrale non ha precedenti. È la via maestra per riportare la pace perché se il rublo va a gambe all’aria e non hai le energie finanziare per sostenerlo diventa inevitabile raddoppiare i tassi (dal 9,5 al 20%) e fare i conti con la crisi valutaria e la fuga dei capitali, contare giorno dopo giorno pezzi di sistema bancario che saltano.

Questo giornale non ha dubbi: la guerra finanziaria Putin la ha già persa ed è questa l’arma più potente che Europa e Stati Uniti hanno nelle loro mani e stanno usando abilmente. Sapendo ovviamente che più la Russia vacilla più la morsa italiana dei rincari-record delle materie prime alimentari, di gas e petrolio, con fondi comuni mobiliari (ETF) sospesi e grandi banche che soffrono e fanno scendere la borsa di oltre il 4%, mettono a dura prova l’economia del Paese.

Tanto che anche il sollievo derivante dalla caduta dello spread (147 punti) e del rendimento decennale (1,52%) legato alle inevitabili riflessioni della Banca centrale europea su una maggiore cautela nell’uscita dalle politiche monetarie espansive, passa quasi inosservato. Come appaiono francamente umoristiche le previsioni segnate da un generale consensus che ancora accreditano per l’Europa uno 0,4/0,5% di Pil in meno legato alla guerra in Ucraina. Diciamoci le cose come stanno. Il quadro dal campo di battaglia è cruento, ferisce la dignità delle persone, umilia le classi dirigenti. Il quadro geopolitico impone riflessioni ancora più complicate.

Per fortuna l’Italia e l’Europa hanno Draghi.  Che ha la piena consapevolezza che la storia è arrivata al capolinea del suo cumulo di demagogie che valgono per l’Europa e, ancora di più, per l’Italia. Dove le semplificazioni propagandistico-ideologiche dei giovani leader (ve lo avevamo detto, avete sbagliato tutto) superano ripetutamente il senso del ridicolo. Un Draghi che, soprattutto, mostra di avere la consapevolezza di De Gasperi e del suo senso della storia lunga. Proprio quello che fa dire oggi a Draghi che “ancora non è il momento” riferendosi al secondo/terzo tentativo di mediazione di Macron con i russi sulla guerra in Ucraina. Che non vuol dire che non bisogna trattare, anzi, ma che per la feroce complessità della situazione ancora non è il momento. Ricorda proprio il De Gasperi che dopo la prima guerra mondiale metteva in guardia tutti quelli che dicevano che era tutto finito.

Avendo vissuto un’esperienza molto lunga che partiva dall’Ottocento, lo statista trentino si rendeva conto che ci voleva tempo perché si era passati dalla fine del secolo precedente dove si riteneva che non ci sarebbero state più grandi guerre, a un secolo che si è mangiato tutti questi ideali. Questo è il senso della storia lunga che distingue il politico di razza dal mestierante. Questo è quello che Draghi, come allora De Gasperi, ha capito.

Ai suoi occhi è chiaro che non si tornerà più al mondo di prima. Che non basterà più un accordo sulla Crimea per mettere tutto alle spalle perché la Russia troverà altri modi per proseguire il suo espansionismo fuori dalla storia, nutrito di pulsioni autocratiche e radici dittatoriali. Che l’Europa dovrà superare non per finta i suoi egoismi nazionali e che dovrà ripensare totalmente il suo ruolo. Che gli Stati Uniti a loro volta dovranno cambiare e dovrà cambiare il loro rapporto con l’Europa a partire dall’economia.  Che avremo un nuovo ordine mondiale con un rapporto diverso tra Cina e Russia e che le lealtà dei governi e le leadership future si giocheranno su cambiamenti effettivi non a parole.

Draghi tutte queste cose le capisce perché ha vissuto la lunga stagione della guida del governo della moneta europea che appartiene alla storia. Perché lì ha quasi toccato con mano questo cambiamento ed è in questo passaggio cruciale che c’è la differenza tra lui e gli altri leader politici italiani e europei. È l’esperienza della Bce che lo ha trasformato perché lo ha messo a contatto con le tante facce della lunga transizione che abbiamo davanti, con il mondo dell’Europa, con il mondo delle altre grandi potenze, con il mondo della finanza internazionale.  Se Putin oggi sbaglia, come sbaglia, vuol dire che sotto sotto sta cambiando qualcosa e che, forse, questi errori si fanno sulla base di analisi storiche sbagliate.  Anche Hitler scatenò la guerra perché fece il calcolo sbagliato che gli Stati Uniti non sarebbero mai intervenuti e che l’Inghilterra avrebbe lasciato campo libero in Europa per tenere il suo altro mondo fatto di colonie. Quando si fanno questi errori è difficile tornare indietro: Hitler seminò morte e ci rimase sotto. Anche Mussolini che voleva il suo pugno di morti per partecipare al tavolo della pace, si guadagnò il suo cappio intorno al collo.

La storia non funziona così. La storia non è una lunga sequenza di occasioni per questo o quel colpo di mano. La grande trasformazione in atto oggi ci dice: attenzione, non possiamo più fare i furbetti. Ci dice che dobbiamo cambiare. Che dovremo sopportare tutti i costi che questo cambiamento determinerà. Non sappiamo quanti in Italia hanno capito che abbiamo bisogno di classi dirigenti che abbiano afferrato la complessità del problema con cui ci misuriamo. Perché soprattutto la formazione della pubblica opinione resta prigioniera di vecchie e nuove retoriche. Questo è il problema italiano di oggi.

Quello che è oggi la Grecia nell’Europa di oggi, potrebbe essere l’Italia di domani nell’Europa di domani se non si afferra la portata storica della sfida e non si agisce di conseguenza. Abbiamo bisogno anche noi come Paese di un sistema di pensiero come c’è in Francia con Macron e come lo hanno i tedeschi anche nel passaggio di leadership consolidate. Noi oggi ci balocchiamo perché chi garantiva tutto ciò erano i partiti, ma quelle officine di pensiero sono finite – a volere essere generosi – dagli anni Ottanta. Questo per l’Italia ha prodotto disastri come il 95% di dipendenza energetica dall’estero e potrebbe diventare un incubo se non si cambia registro. Bisogna che i media e la politica lo capiscano. Bisogna che Draghi impegni una parte rilevante del suo tempo perché un sistema di pensiero italiano all’altezza della storia diventi un’idea diffusa. Le rivoluzioni non si fanno mai da soli.


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