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Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dei ministri

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Si deve percepire che tutti corrono in questa direzione perché la condividono senza riserve. Viceversa se continueremo ad assistere ai protagonismi ministeriali e allo scontro permanente tra le tecnostrutture dei ministeri per i singoli poteri, si arriva al solito spettacolo dei gallismi ministeriali con le chiocce coccodè delle Regioni al seguito e della concorrenza stabile tra strutture di potere che regalano da sempre all’Italia il trofeo della paralisi

La differenza tra la prima bozza di Recovery Plan del governo Conte e quella presentata dal governo Draghi a Bruxelles è esattamente la stessa che passa tra una polaroid e una macchina fotografica digitale di ultimo modello.

Pubblichiamo in esclusiva la relazione tecnica del piano parallelo dove sono scolpite nella pietra impegni e destinazioni dei singoli interventi compresa la definitiva operazione verità sulle risorse del Fondo sviluppo e coesione con in calce la firma del Ragioniere generale dello Stato, Biagio Mazzotta.

L’impegno su ferrovie, digitale e molto altro nel Mezzogiorno si sostanzia di progetti e di numeri verificabili e riscontrabili. A nostro avviso realizza pienamente la coerenza meridionalista del Progetto Italia. Le schede tecniche che si allungano per 2800 pagine indicano con chiarezza i tre livelli di governance del Progetto Italia. Quello esecutivo affidato ai ministeri.

Quello di monitoraggio e di rendicontazione come punto unico di contatto con la Commissione europea affidato alla Ragioneria generale dello Stato.  Quello di controllo con poteri speciali autorizzativi e sostitutivi presso Palazzo Chigi con una cabina di regia e una unità di missione operativa che deve attuare le indicazioni politiche.

Detto così sembra tutto chiaro, tutto risolto. Invece non è così. È chiaro piuttosto a tutti che di qui a dieci giorni massimo, a maggior ragione alla luce degli impegni messi nero su bianco con Bruxelles, deve emergere il riconoscimento politico del punto centrale della regia a Palazzo Chigi senza che tutti i ministeri si mettano a discutere di tutto come hanno sempre fatto negli ultimi venti anni bloccando ogni cosa.

Il Paese ha bisogno di una linea di comando chiara e semplice tanto per le semplificazioni quanto per la governance.  Si deve percepire che tutti corrono in questa direzione perché la condividono senza riserve. Viceversa se continueremo ad assistere ai protagonismi ministeriali e allo scontro permanente tra le tecnostrutture dei ministeri per i singoli poteri, si arriva al solito spettacolo dei gallismi ministeriali con le chiocce coccodè delle Regioni al seguito e della concorrenza stabile tra strutture di potere che regalano da sempre all’Italia il trofeo della paralisi.

Se Cingolani, super ministro della Transizione ecologica, vuole la sua commissione unica per la valutazione di impatto ambientale, i direttorini dell’Ambiente mai domi moltiplicheranno le stazioni decisionali, rifaranno i loro giochetti, e noi perderemo per sempre la faccia in Europa. 

Se un ministro dei Beni culturali, Franceschini, che stanco delle polemiche non vorrebbe mettersi di traverso, fa l’errore di cedere un attimo alle pressioni dei suoi superburocrati si infila con le proprie mani in un tunnel da cui non si vede più la luce. I suoi mega-direttori non hanno digerito la perdita del turismo, non vogliono cedere il potere di veto delle sovrintendenze e con questa scusa pretendono di continuare a non fare bene quello che è il loro lavoro vero e, cioè, programmare, organizzare, gestire musei, mostre e così via.

Se Franceschini, insomma, vuole accelerare i tempi di rilascio del parere vincolante ma chiede esausto di lasciare questo potere ai suoi funzionari altolocati, allora siamo spacciati per sempre.

Se il ministro dei Trasporti e delle mobilità sostenibili Giovannini si fa intrappolare o gli piace intrappolarsi dietro i papaveri del suo dicastero che vogliono dire la loro da casa loro e lo faranno come hanno sempre fatto, allora si ripete il film dell’orrore di qualche anno fa quando il ministro Tria e l’allora ragioniere generale dello Stato Franco provarono a dotare il Paese di una centrale di progettazione degna di questo nome ma i funzionari dell’allora Mit ingaggiarono una battaglia campale e non se ne fece niente.

Risultato: siamo arrivati a presentare il piano in Europa senza un progetto consacrato in tutti i suoi crismi perché lì da sei anni è tutto fermo, si litiga per il potere delle carte. Se siamo a Brunetta contro Franceschini, contro Giovannini, contro Cingolani, perché giustamente il primo difende la sede unica e gli altri i loro fuorisede, allora è la fine.

Questo è il punto dirimente e vale per entrambi i decreti: semplificazioni e governance. Così come se l’impianto di monitoraggio, controllo rendicontazione al Mef sarà quello usato per i fondi di coesione, allora c’è il rischio che prevalgano le complicazioni e si finisca in quel sistema così complesso di lotte di potere e di ricadute pratiche che hanno portato molto spesso al mancato utilizzo dei fondi comunitari.

Anche qui occorre semplificare drasticamente il meccanismo di governance, avere piena fiducia nella Ragioneria generale dello Stato e rendere subito attuabile la nuova centrale di progettazione con i nuovi mille che non sono quelli di Garibaldi ma devono essere espressione del meglio che c’è sulla piazza e alimentare le task force di risultato di cui il Paese ha bisogno imprescindibile di sicuro nei territori ma molto anche al centro. Si facciano lavorare i dipartimenti di Palazzo Chigi rimpolpandoli dove necessario e si faccia la struttura tecnica di missione che serve a fare le cose, non a litigare.

I ministeri si impegnino tanto e bene per la montagna di lavoro che hanno nella fase di esecuzione e, siccome partono malmessi, abbiano l’umiltà di farsi aiutare con molti ingaggi esterni mirati e competenti. La smettano di parlare di soldi, e si mettano a lavorare, si mettano a eseguire progetti buoni invece che litigare sul nulla. Se non succede tutto questo si ritorna alla paralisi confusionale di prima e si finisce nel burrone. Sapendo fin da ora che nessuno ci verrà a riportare su.


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