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Si dimenticano tutti del problema dei problemi che è l’inflazione da costi dei profitti. Se al calo del potere di acquisto delle famiglie del 3,7% corrisponde un aumento dei profitti dell’1,9% non delle grandi società finanziarie ma del commercio al dettaglio, qualcosa di pericoloso sta accadendo. Si approfitta della confusione nella dinamica dei prezzi come le imprese che non abbassano i listini rialzati per un caro energia sparito. Tutto ciò avviene quando siamo per il terzo anno consecutivo l’economia europea con crescita e fiducia superiori alle altre. Possiamo cambiare con i fatti il racconto di un Paese che da fanalino di coda diventa locomotiva europea e non abbiamo altra via per rimborsare il debito. Fare cadere tutto sul sassolino di massa dei profitti da confusione nella dinamica dei prezzi del commercio al dettaglio e delle imprese che non abbassano i listini dei loro prodotti non è più tollerabile.

Siamo davanti a un atteggiamento più ragionevole della Banca centrale europea (BCE) che è frutto della grande paura da crisi bancarie e da un quadro congiunturale globale fornito dal Fondo monetario internazionale (Fmi) che permane ostaggio delle tensioni geopolitiche e vede dimezzare la crescita 2022 dal 6,1 al 3,4% per scendere nelle sue previsioni sotto il 3% nel 2023. Il doppio dato dei segni evidenti della stretta monetaria, da un lato, sull’economia reale e, dall’altro, sulle crisi bancarie americane e svizzere e sulla situazione della sorvegliata speciale Deutsche Bank che è la prima banca tedesca e quella con più problemi, un po’ di paura la trasferiscono anche ai falchi del Nord della Bce. Questo è certo.

Ci sono oggi, anche per queste ragioni, le condizioni per una politica monetaria più ragionevole o se non altro in qualche misura meno “teologica”. Anche i più scalmanati e dogmatici sulle virtù obbligate della politica degli alti tassi sembrano assumere comportamenti più riflessivi e più attenti alle ragioni dello sviluppo e alla necessità di fare credito per sostenere l’economia reale. Se si ferma il mondo, non è che sparisce il problema dell’inflazione ma ce ne è uno in più ed è difficile non tenerne conto se si ha un po’ di sale in zucca. Se l’esito finale della forsennata crescita dei tassi è quello che finiscono a pezzi le banche anche se chi sta alla Bce tiene conto soprattutto dell’opinione pubblica tedesca che vede l’inflazione come il male assoluto non può non percepire almeno l’esigenza di tenere insieme tutto. Non può non avvertire l’obbligo di evitare nuove slabbrature. Anche perché la stessa Germania che ha pagato un prezzo tra i più alti per la sua economia a causa dei fili dell’asse Est-Ovest tagliati dai carri armati russi in Ucraina comincia cautamente a rialzare la testa e, quindi, ributtarla sotto di stretta in stretta può essere pericoloso.

C’è un punto, però, che riguarda l’Europa e l’Italia in particolare che deve fare riflettere. L’inflazione core stenta ancora a ridursi. È abbastanza normale che ci siano dei tempi tecnici perché l’energia si trasferisce subito sull’inflazione complessiva a causa dei costi di trasporto e di per sé incide sui costi diretti dei negozi come delle fabbriche per cui ci vuole un altro po’ di tempo prima di ritornare ai livelli dove si stava prima.

Comunque è bene sottolineare che la componente energetica ha già fatto il suo per cui ora siamo al 6,9%, ma l’obiettivo è di essere poco sopra il 3% alla fine dell’anno. Per ottenere questo risultato bisogna pilotare la discesa in modo ordinato senza dare scossoni all’economia visto che l’economia mondiale non è in grande forma. Tutte le banche centrali continuano a stringere ma fanno capire che lo faranno in modo frenato e si discute molto di costi di inflazione da energia e salari e da spirale prezzi-salari. Si dimenticano sempre tutti di parlare del problema dei problemi di oggi, soprattutto in Italia, che è l’inflazione da costi dei profitti.

Poiché c’è confusione nella dinamica dei prezzi il barista o il panettiere se ne sta approfittando per cui continuano a aumentare i prezzi benché stiano fortemente scendendo quelli energetici, questo è un problema serio. Che è lo stesso problema, nel senso che riflette una dinamica analoga, che emerge ogni volta (sempre) che le imprese non tagliano i prezzi finali aumentati a causa del rialzo di quei costi energetici che sono stati brutalmente abbattuti. Ci troviamo a fare i conti con il rischio di recessione da profitti dei ricchi che hanno attraversato i cigni neri della pandemia e della guerra facendo il pieno di profitto grazie ai grandi trasferimenti pubblici tra moratorie, rimborsi, crediti di imposta e sostegni al lavoro per il caro bollette.

Non può essere che il Paese intero debba pagare un’inflazione da profitti sussidiati perché l’Europa solidale post pandemica ha consentito anche allo Stato italiano di intervenire alla grande contraendo centinaia di miliardi pluriennali di nuovo debito che pagheremo tutti ma nel frattempo si è preoccupato di indennizzare pienamente dalla crisi le imprese e i loro padroni. Se al calo del potere di acquisto del 3,7% e a una diminuzione del 2% della propensione al risparmio delle famiglie, corrisponde un aumento trimestrale dei profitti dell’1,9% non delle grandi società finanziarie ma del piccolo commercio al dettaglio vuol dire che qualcosa di davvero pericoloso sta accadendo dentro il sistema Paese.

Soprattutto perché ciò avviene quando siamo per il terzo anno consecutivo l’economia europea che cresce più di tutte e anche gli indici di fiducia sono più positivi degli altri. Stiamo facendo meglio anche della Cina. Anche se i mercati temono la recessione mondiale, il sistema Italia è in ripresa e sfrutta il cambio del quadro geopolitico che ci riconsegna una posizione di prima linea grazie alle performance delle nostre imprese esportatrici e alla nuova centralità del nostro Sud che diventa il Nord energetico dell’Europa e il centro di propulsione della crescita della manifattura del Mediterraneo. Buttare via questo circolo virtuoso perché non si vuole rinunciare a un surplus di profitti da sussidio pubblico è francamente inaccettabile.

Anche le previsioni più nefaste per la Germania si stanno offuscando e ciò preserva la nostra rilevante quota di export legata all’economia tedesca che vale il 30% dell’economia europea. Che si aggiunge al boom sui Paesi extra europei. Abbiamo la possibilità entro la fine del decennio di mettere a terra opere e investimenti fino a un 15% di nuovo prodotto interno lordo se impariamo a sfruttare bene tutte le risorse europee che ci sono state messe a disposizione. Possiamo, di anno in anno, cambiare con i fatti il racconto di un Paese che da fanalino di coda diventa locomotiva della crescita europea e non abbiamo altra via per rimborsare il debito che nessuno ci può togliere. Fare cadere tutto sul sassolino di massa dei profitti da confusione nella dinamica dei prezzi del commercio al dettaglio e delle imprese che non abbassano i listini dei loro prodotti non è più tollerabile.


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