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Il groviglio di interessi corporativi lascia pochi spiccioli per tagliare le tasse o chiudere le riforme di burocrazia e giustizia che servono per fare la staffetta tra investimenti privati e pubblici e sostenere la crescita. Oscura il racconto di un Paese che ha un forte avanzo commerciale e una posizione finanziaria netta positiva contro quelle tutte negative di Spagna, Portogallo, Grecia commissariata e della stessa Francia. Che ha la ricchezza per pagare il suo debito perché la quota estera rispetto al Pil è un quarto del totale, l’ottava in Europa superata tra gli altri da Francia e Austria.

La politica italiana si è ridotta a catena di trasmissione delle corporazioni di interessi organizzati che sono tutti contro l’interesse generale. Ognuno agisce per salvare la propria rendita di posizione e si tiene stretto il suo tesoro. Questo mirabile lavoro lobbistico approfitta di una politica da troppo tempo debole e in balia di tali interessi. Si traduce in una debole tutela della forza resiliente della sua economia e, ai fini dei mercati e delle valutazioni degli investitori, anche in una rappresentazione della realtà tanto lacunosa quanto pericolosa.

C’è un dato di fatto che si continua a sottovalutare ed è l’astensionismo che nelle elezioni suppletive di Monza è arrivato alla quota record di circa l’81% e a un campanello d’allarme scattato in Alto Adige perfino per la Lega. Vince il presidente della Provincia in carica perché ha fatto una squadra che su scala ridotta ha messo insieme le corporazioni locali più forti. Questo elemento dell’intreccio tra politica e corporazioni sta diventando strutturale e la manovra appena approvata (non in tutto) ne è anche un piccolo argine, ma solo per assoluta carenza di risorse.

Nel suo complesso dà, però, la misura esatta di dove porti la politica ridotta a corporazioni di potere. Porta alla distorsione finale che chi sta al potere è più avvantaggiato perché è più in grado di tenere legato a sé il carro residuo di elettori mentre gli altri se ne vanno dalla politica e dalle urne. Questo duplice fatto porta alla sparizione dei partiti sostituiti dai politici delle lobby che vivono la contesa elettorale permanente come una lotta di corporazioni e a un’attenzione distratta della opinione pubblica che ormai si mobilita solo per grandi questioni demagogiche Tutto ciò impedisce di fare scelte economiche spiazzanti perché se perdi tempo a salvare l’interesse di cinquanta corporazioni non riesci a salvare l’interesse di tutti. Per cui anche se il mondo sta cambiando non si fa nulla con i tassisti e neppure con i balneari.

Per cui anche se sarebbe giusto ridurre la pressione fiscale le lobby ti lasciano quattro spiccioli e puoi sfogarti solo con le semplificazioni se non litighi anche su quelle per qualche complicazione lobbistica di ritorno. Per cui se vuoi sbloccare gli investimenti e fare la staffetta tra quelli privati e pubblici finanziati dal Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) ti trovi a fare i conti con quel groviglio di interessi corporativi che blocca la riforma di tutti i tipi di giustizia – ci – vile, penale, amministrativa, contabile – e fa tutt’uno con il difficile cambio di passo di burocrazie centrali e territoriali ottenendo il nobile risultato di ostacolare o scoraggiare ogni forma di investimento interno ed estero nonostante le innegabili qualità tecniche della maggioranza dei giudici e, un po’ meno, di una parte comunque rilevante della burocrazia.

Tutto questo impedisce, ad esempio, di cogliere che la quota di debito estero dell’Italia si è ridotta a un quarto contro il 47% della Francia e il 40% della Spagna. Che le nostre imprese esportano come l’intero Giappone. Che, tolto il 25% sottoscritto all’estero, il restante 75 % di debito italiano comprato in casa dalla Banca d’Italia, per conto dell’eurosistema della Bce, da banche, fondi e casse di previdenza italiani oltre che da una quota retail delle famiglie remunera l’interesse della ricchezza italiana che diventa, quindi, più ricca.

La situazione di oggi, da questo punto di vista, come già detto altre volte, è differente dal novembre del 2011 quando oltre la metà del debito italiano era direttamente in mani estere. Questa politica intrecciata con le corporazioni è al lumicino dei consensi e impedisce anche solo di ricordare che, a differenza, della Francia l’Italia ha un avanzo commerciale che viaggia per fine anno verso i 25 miliardi con dentro il deficit energetico. Fa dimenticare che l’Italia ha una posizione finanziaria netta positiva di sette punti di Pil contro quella negativa francese di 25 punti e quelle sempre tutte negative di Spagna, Portogallo e della Grecia commissariata. Impedisce di dire che le assicurazioni tedesche guadagnano solo con i titoli di Stato italiani perché danno un bel rendimento, ma il Paese non può fallire perché ha la ricchezza interna per pagarlo e perché la sua quota di debito estero rispetto al Pil è l’ottava in Europa, superata tra gli altri da Francia e Austria.

Questa è l’Italia che nessuno racconta e che invece andrebbe raccontata di più per trasmettere la fiducia che sostiene la crescita e che dovrebbe essere altresì affiancata da una ripresa sostenuta di investimenti pubblici che a loro volta mobilitano quelli privati senza essere intralciati dal lobbista di turno della corporazione di turno. Questa Italia che nessuno racconta è anche quella che permette a portoghesi e spagnoli di collocare i loro titoli sovrani rispettivamente a un punto mezzo e a un punto in meno di quello che dobbiamo pagare noi per collocare i titoli italiani. Anche per questo serve quella crescita che mette tutti a tacere e fa calare in percentuale il debito, oggi al 140,1% del Pil. Perché, a quel punto, tutte le verità nascoste appena elencate cambierebbero totalmente la percezione dell’Italia nel mondo. Se pensate di farla cambiare ai nostri talk show del nulla non pensateci nemmeno.


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