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PIGS in inglese significa “maiali” e così erano spregiativamente indicati Portogallo, Italia, Grecia e Spagna scommettendo sulla loro uscita dall’euro. Dopo la pandemia, l’economia europea mediterranea – prima e più pesante di tutte l’Italia, a ruota Spagna e Portogallo, bene la Grecia – è cresciuta tanto. A fronte di Germania crollata e Francia acciaccata. I “maiali’ sono diventati “tori” e, in casa nostra, la Puglia è cresciuta più della Lombardia. Il podio ribaltato obbliga a ripetere la stagione delle grandi opere di Pescatore non più per salvare il Sud italiano, ma giocare bene la carta Mediterraneo e salvare l’Europa.


È un dato che sembra essere sfuggito a molti, ma che merita di essere sottolineato. Perché non è solo constatativo, ma riflette tendenze e comportamenti consolidati. Significa molte cose per l’oggi e per il domani. Senza l’Europa mediterranea con la sua economia che è cresciuta tanto e continua a crescere, l’Europa intera sarebbe oggi già in recessione. Questo podio ribaltato tra Sud e Nord del Vecchio Continente dura da quattro anni. Non è più un fatto episodico o congiunturale che dir si voglia.

La nuova locomotiva europea sono Portogallo, Italia, Grecia e Spagna e, cioè, le ultime carrozze del treno europeo che, con l’Irlanda dopo di noi, venivano riunite sotto un acronimo (PIIGS) coniato dalla stampa economica anglosassone fin dal 2007 per indicare i cinque Paesi dell’Unione europea ritenuti più deboli economicamente. Questi PIIGS sono l’evoluzione di PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), che è un acronimo già in uso sin dagli anni Novanta dichiaratamente dispregiativo al punto da essere giudicato offensivo da molti osservatori internazionali visto che “PIGS” in inglese significa letteralmente “maiali”.

Per capirci, questi cinque Paesi hanno attraversato le grandi crisi internazionali della finanza e dei debiti sovrani messi sempre all’indice a causa di conti pubblici precari, scarsa competitività delle economie nazionali e alti livelli di disoccupazione. Non si faceva altro che ripetere in coro: faticano a ripagare i loro elevati debiti sovrani e sono destinati a uscire dalla zona euro contribuendo all’aggravamento della crisi economica internazionale iniziata nel 2008 e elevatasi al cubo per l’altra crisi, quella dei debiti sovrani del 2011, che prima non è stata capita poi è stata così mal curata al punto di arrivare a protrarla, di fatto, fino al 2014.

È successo per gli errori di una classe dirigente politica europea quanto meno miope e per gli effetti nefasti delle scelte sbagliate di Trichet, predecessore di Draghi, alla guida della Bce, che non capì che la crisi finanziaria non era ancora finita, alzò i tassi invece di abbassarli, e trasformò il problema del debito greco in una malattia contagiosa che rischiò di fare saltare l’euro, portando in dote al Sud Europa la seconda recessione. L’euro di serie A e l’euro di serie B che a un certo punto tutti davano per scontati non si sono appalesati, perché la moneta fu salvata dal credito personale di Draghi e dalla successiva politica monetaria espansiva della Bce. I Paesi del Sud Europa sono rimasti con la stessa moneta di quelli del Nord Europa. Dal 2010 l’acronimo di certo poco elegante (“PIGS”), è stato in parte sostituito dal suo anagramma GIPSI (spesso considerato comunque espressione di ostilità, data la somiglianza con l’inglese “gipsy”, gitano).

Al di là, però, delle spiegazioni etimologiche che la Treccani fornisce puntualmente, resta un dato di fatto incontestabile: i “maiali” di ieri sono i “tori” dell’economia europea di oggi. Il Paese che ha raggiunto prima di tutti i livelli pre Covid e mantiene il primato è l’Italia che di questi è ovviamente anche l’economia più pesante. Il piccolo Portogallo ha una crescita record e ha ridotto e continua a ridurre il rapporto debito-Pil. La Spagna è partita un po’ dopo l’Italia, ma ora cresce di più e ci segue a ruota nel record di tasso di crescita post Covid. Anche la Grecia fa bene la sua parte. A fronte di tutto ciò la Germania è ormai in caduta libera e, come sosteniamo da tempi non sospetti, che significa da quando non lo diceva nessuno, fa i conti con una crisi strutturale della sua economia che è frutto della rottura dell’asse strategico di sviluppo del mondo Est-Ovest e, di conseguenza, della perdita del vantaggio competitivo legato ai rapporti privilegiati con Russia e Cina rispettivamente per le materie prime e i chip della nuova economia.

Questa roba è saltata e ci vorranno cinque-dieci anni per rimettere insieme i cocci. La stessa Francia, anche questo comincia ad essere evidente, si è fatta risucchiare dalla crisi tedesca a causa delle cointeressenze non solo energetiche ed è, soprattutto, assodato – altro dato di fatto – che al netto della spesa per gli interessi in questi quattro anni post Covid l’Italia ha fatto 150 miliardi di nuovo debito mentre la Francia ha contratto ben 520 di miliardi di nuovo debito. Ha fatto tutto ciò, che non può non nuocere in prospettiva alla sua economia perché i debiti prima o poi vanno pagati, portando, però, a casa dati strutturali di crescita nello stesso periodo nettamente inferiori a quelli italiani. Anche qui siamo davanti alla spia di un’altra grande crisi strutturale europea dopo quella tedesca. Le sorprese non sono neppure finite.

Se andate a leggere i dati della contabilità nazionale appena resi pubblici, scoprirete che dai livelli pre Covid a fine 2022 la regione che ha evidenziato la maggiore crescita è la Puglia (+5,2%) seguita da Lombardia (+4,5%) e dall’Emilia-Romagna (+3,6%). Attenzione, però, a fare molto bene ci sono anche Basilicata (+2,9%), Campania (+2%) e Sicilia (+1,9%). L’Umbria crolla, la Toscana fa -0,2%, Piemonte e Lazio portano a casa qualche decimale di crescita. Gli sconvolgimenti della geopolitica, la guerra mondiale delle materie prime e la deglobalizzazione che ne sono discese, fanno del Sud dell’Europa e dell’Italia in particolare la piattaforma naturale del grande hub energetico mediterraneo dell’Europa, il cuore della sfida globale della nuova industria europea, il banco di prova dell’Europa della solidarietà degli eurobond post pandemici per la capacità di fare nuove infrastrutture strategiche digitali, energetiche, ferroviarie, Ponte sullo Stretto compreso, creando quindi tutte le condizioni perché il Sud del mondo più regolamentato e sicuro, che è quello italiano, diventi il nuovo Eldorado degli investimenti del mondo e un moltiplicatore di quelli privati italiani e europei.

Perché tutto ciò avvenga è importante che il Paese prosegua nel solco della scelta politica di un’unica regia con poteri di supplenza voluta da Fitto e approvata dall’Europa, salvando ovviamente tutto ciò che già funziona territorialmente perché nei dettagli si rischia sempre di rimanere incagliati. Soprattutto bisogna che si doti di un’agenzia tecnica modello prima Cassa delle opere guidata da Gabriele Pescatore che raddoppiò il prestito Marshall per l’Italia e riunì Nord e Sud portando dighe, facendo acquedotti, scuole, asili, nido, perfino aeroporti, diciamo tutto, arrivando alla metà degli anni Settanta, dopo due decenni di lavoro, ad avere contribuito in modo decisivo a trasformare un Paese agricolo di secondo livello prima in un’economia industrializzata poi in una potenza economica mondiale.

Ho scoperto ieri, moderando un convegno a Catanzaro sulla “Zes unica per il Mezzogiorno: opportunità per la Calabria”, che anche l’aeroporto di Lamezia Terme lo ha fatto la Cassa di Pescatore, ma pure quello di Bari e di Pescara. Come era solito ricordare il siculo-valtellinese Pasquale Saraceno “parlando” sempre con i fatti e accompagnando l’esposizione con una smorfia successiva di dolore o di fastidio perché vedeva che per fare spazio alle Regioni delle clientele si era smontata la macchina d’oro del Paese. Pensate che a comunicare a Pescatore che lo avevano mandato a casa fu il Tg1 delle 20. A volere la sua testa fu il PCI dell’epoca, azionista della nuova maggioranza di Solidarietà Nazionale, che lo accusava di essere l’unico caso al mondo di attuazione del dogma della pianificazione comunista, ma a vantaggio dei potentati democristiani.

Ovviamente non era vero e chi ha pagato un prezzo enorme per questa scellerata decisione non sono stati i potentati democristiani, ma lo sviluppo infrastrutturale e industriale del Paese. Il declino italiano è iniziato con questo errore capitale. Cerchiamo di ricordarcelo oggi per ripartire da qui e togliere dal tavolo le tentazioni autonomistiche che perseguono la frammentazione decisionale dell’atomo e porterebbero l’Italia a sparire per sempre dal novero delle grandi economie industrializzate.


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