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Confindustria fustiga la politica perché non è trasparente e non fa questa o quella riforma, ma non è capace di darsi regole che consentano di individuare al meglio un pezzo di leadership decisiva della élite di questo Paese. Non ci occupiamo di nomi, ma poniamo una questione di metodo che è sostanza perché si scarta in partenza una competizione diretta che consente a chi deve scegliere di percepire la differenza di personalità e la capacità di fare squadra dei singoli candidati. Non possono essere enclave sempre più strette a decidere chi guida un mondo produttivo esteso che realizza l’unico attivo con l’estero italiano. È la valuta fresca che fa dell’Italia un Paese capace di onorare i suoi onerosi impegni debitori.

La spinta disgregativa di buona parte delle classi dirigenti di questo Paese e la parallela assenza mediatica di una consapevolezza diffusa dell’interesse nazionale, costituiscono insieme il problema principale della qualità della nostra democrazia e della capacità di fare sistema in un contesto geopolitico che dovrebbe invece obbligare a fare squadra e privilegiare le competenze in tutti gli ambiti.
Ricordo un bel po’ di tempo fa una mia intervista pubblica a Milano all’ex cancelliere tedesco Schröder, l’uomo che salvò la Germania in un momento di difficoltà facendo le riforme strutturali che servivano e ha poi bruciato una grande storia politica personale in un sodalizio “criminoso” di affari con Putin che ha nuociuto alla Germania e all’Europa intera. La prima domanda che gli feci fu la seguente: lei ha fatto le riforme impopolari che hanno rimesso in corsa il suo Paese, ma la Merkel, che se ne è presa il dividendo elettorale, le ha mai detto grazie? Lui tutto rosso in faccia, ha risposto in tedesco: nein. La mia seconda domanda fu altrettanto diretta: ma dopo di lei la Merkel ha fatto qualche altra riforma strutturale? Ancora più rosso, sillabò la stessa risposta: nein. No e No. Allora mi venne spontaneo: scusi, visto che la confermano sempre, qualcosa di buono la avrà pure fatta questa Merkel? Anche qui la risposta fu immediata: certo, ha attuato bene le mie riforme.

Oggi la Germania ha di nuovo problemi strutturali determinati dal cambiamento del quadro geopolitico e avrebbe bisogno di un nuovo Kohl, piuttosto che di un nuovo Schröder, per impostare la rinascita dopo quattro anni bui che hanno segnato il loro terribile post Covid piegati dalla caduta del doppio rapporto privilegiato con Russia e Cina per le materie prime del passato e del futuro. Quel passaggio, però, in cui Schröder loda la Merkel perché ha attuato bene le sue riforme delinea l’assetto di una classe dirigente all’altezza delle sfide che oggi ci attendono. È proprio quella classe dirigente che manca ancora in buona parte a questo Paese. A livello di classe politica, certo, ma in egual misura a livello di imprese, di un paio di componenti della rappresentanza sindacale, di racconto mediatico che descrive rumorosamente un Paese sempre spaccato in due. Un racconto dove i fatti non esistono più e tutto è battaglia tra guelfi e ghibellini, perché anche i numeri diventano opinione e i valori della nostra economia, più resiliente a tutto e contro tutti, semplicemente spariscono.

Scusate questa lunga premessa, ma è stata necessaria perché ci si renda conto di quanto possa essere grave per il Paese intero un ceto dirigente imprenditoriale che con la sua associazione di rappresentanza, Confindustria, fustiga stabilmente la classe politica italiana perché non è trasparente o perché non è riuscita a fare questa o quella riforma, ma non è capace di dotarsi di regole che la facciano uscire dal sistema della corporazione e permettano di evitare una selezione negativa di un pezzo di leadership decisiva della élite di questo Paese.
Abbiamo assistito all’inimmaginabile: il sistema di rappresentanza delle imprese che parlava addirittura di recessione profonda o almeno tecnica negli anni del secondo grande miracolo economico italiano (+12,3% in due anni, oggi primi in Europa con +4,2% rispetto al pre Covid) che avevano contribuito a realizzare in misura determinante proprio quelle stesse imprese di cui Confindustria ha la rappresentanza.

In questa sede non vogliamo neppure citare i nomi degli imprenditori in corsa per succedere a Carlo Bonomi alla guida di Confindustria, ma porre piuttosto una questione di metodo che diventa sostanza e fa parte di quel gigantesco problema costitutivo che il Paese porta sulle sue spalle come fardello pesantissimo. È possibile selezionare il nuovo presidente senza un confronto diretto, anche pubblico, tra i candidati, perché tutti ne possano percepire in modo trasparente la forza delle idee, la personalità e il carisma che non sono proprio elementi trascurabili per chi dovrà guidare un pezzo così vitale del ceto dirigente italiano? È possibile anche solo pensarlo per un sistema che rappresenta 150 mila imprese, che fabbrica 1200 miliardi di fatturato, 600 di esportazioni e realizza l’unico attivo con l’estero di decine di miliardi l’anno che è la valuta fresca con cui il mondo ritiene che siamo ancora un Paese solvibile e, cioè, capace di onorare i suoi onerosi impegni debitori? Ha un senso procedere a confronti in enclave sempre ristrette con i candidati che si presentano uno alla volta, che è di certo il modo migliore per non fare le valutazioni più appropriate su una scelta così rilevante?

È vero che siamo, purtroppo, un Paese che quando fai le cose meglio degli altri lo sport nazionale è quello di farti fuori, ma è francamente inaccettabile arrivare addirittura ad ipotizzare che i migliori vengano tenuti fuori in partenza da una competizione diretta che è la sola capace di consentire a chi deve scegliere di percepire la differenza di personalità e la maggiore o minore capacità di fare squadra dei singoli candidati. Che senso ha tenere in piedi impalcature così imponenti di ogni genere di consigli più o meno generali, comitati direttivi, associazioni di categoria e territoriali quando uno schema burocratico di regole del passato filtra e indirizza la decisione più importante?
Può anche capitare che si faccia la scelta giusta, ma sarà solo il frutto di un caso, e noi volutamente ci asteniamo dal dare indicazioni personali perché non vogliamo togliere forza a un ragionamento di fondo che, a nostro avviso, imporrebbe un metodo di scelta totalmente differente. È in gioco la leadership di un sistema così complesso che dovrebbe avere a cuore un Paese che mette al centro della sua agenda la tutela dell’interesse nazionale, in uno scenario globale totalmente cambiato, non del sussidio o del piacere all’amico dell’amico. È una questione di metodo, certo, ma a nostro avviso decisiva per evitare che prosegua il processo di delegittimazione delle classi dirigenti del Paese. Che, purtroppo, non riguarda solo il sindacato degli industriali.


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