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Invece di chiedere soldi e aiuti da mettere nelle mani di quei potentati territoriali e di quelle mafie locali che sono il principale nemico di uno sviluppo sano e che inquinano il tessuto civile e lo sforzo competitivo dei territori meridionali, sarebbe obbligatorio che i ceti produttivi di mercato del Mezzogiorno e i suoi laboratori tecnologici all’avanguardia si mobilitassero con un gioco di squadra per decidere progetti di sviluppo che a Napoli come a Bari, a Cosenza come a Taranto, a Gioia Tauro come a Catania siano capaci di attirare non soldi pubblici ma capitali privati internazionali per mettere in rete  le 30 università miste del Mediterraneo. Questo è lo sviluppo sbilanciato che serve oggi al Mezzogiorno per fare anche grande logistica dell’energia e dei trasporti e industria del mare che riconquistino insieme i grandi traffici commerciali. L’unica cosa che oggi non manca sono i soldi. Ma solo con progetti di sviluppo sbilanciato si possono  creare le condizioni perché i cervelli del Mezzogiorno abbiano finalmente l’opportunità di potere realizzare i propri sogni nei loro territori. Altrimenti il Pnrr di Draghi rimarrà un paracadute. Con il quale si scende anche nelle turbolenze, ma non si decolla.

NON ABBIAMO nascosto la nostra idiosincrasia per questo esercizio tanto rituale quanto cieco dei giornali del Mezzogiorno per i quali avere posto in cima alle priorità del Piano nazionale di ripresa e di resilienza l’investimento in capitale umano, pubblica amministrazione e in infrastrutture nei territori meridionali vale poco più che carta straccia. Non chiedono se quegli impegni verranno mantenuti. Non si pongono mai la domanda di come mai gli amministratori regionali del Sud sono i campioni assoluti nel cattivo utilizzo delle risorse comunitarie come la vicenda dei fondi di coesione e sviluppo dimostra in modo assoluto e inequivoco. O, magari, perché a questi stessi cacicchi si consente di fare il bello e il cattivo tempo riempiendo le liste nelle postazioni sicure di congiunti di sangue o famigli di merende clientelari che sono la migliore garanzia perché ogni sforzo di cambiare le cose si vada a scontrare con il muro di vecchi e nuovi feudalesimi.

Abbiano dato gli occhi a tutti i ciecati della cosiddetta questione meridionale sugli squilibri strutturali della spesa pubblica in materia di diritti di cittadinanza e siamo orgogliosi di avere condotto e portato a termine in assoluta solitudine questa operazione verità.

Siamo, però, davvero stanchi come giornale di dovere constatare che neppure davanti a 80 miliardi di nuovi fondi con piani concordati a livello europeo e interventi molto incisivi per ottenere una governance speciale di questi  investimenti, ci si continui a trastullare con il ripetere come nulla fosse che in questa campagna elettorale nessuno parla del Mezzogiorno.  Occuparsi oggi come ieri del caro bollette o dei ristori per la cassa integrazione o, ancora di più, prorogando la decontribuzione per chi  assume al Sud  denota un’attenzione effettiva soprattutto se coniugata con la messe di interventi avviati nelle grandi reti di trasporto e digitali veloci, nell’edilizia scolastica come nella formazione e nella digitalizzazione della scuola e della pubblica amministrazione e, ancora prima, nella riforma degli istituti tecnici superiori e degli istituti tecnologici provando ad abbattere il muro che separa da sempre al Sud il mondo dello studio e il mondo del lavoro e della ricerca.

Attenzione, però, la più irresponsabile delle crisi di governo costringe il Paese a misurarsi  con lo shock del ricatto energetico putiniano e la messa sotto osservazione dei titoli sovrani italiani in condizioni di minore forza avendo noi volontariamente attentato al credito internazionale che il ruolo di Draghi e l’azione del governo di unità nazionale avevano faticosamente ricostruito. Questa è la più grande insidia che ha davanti a sé il processo di riunificazione economica e sociale delle due Italie e di consolidamento del ruolo di leadership nel Mediterraneo che vale per l’Italia una posizione di traino dell’intera Europa.

Chiariamoci bene: con la tagliola dei potentati locali che ci ritroviamo e i rischi connessi alla complessità del quadro geopolitico e delle sue ricadute economiche, il Mezzogiorno rischia di perdere l’ultima, forse, grande opportunità storica e di questo, non di altro, dovremmo parlare in campagna elettorale perché non possiamo permetterci di sprecarla. Sarebbe bello, direi obbligato, che i ceti produttivi di mercato del Mezzogiorno e i suoi laboratori tecnologici all’avanguardia si mobilitassero con un gioco di squadra per decidere progetti di sviluppo sbilanciato che a Napoli come a Bari, a Cosenza come a Taranto, a Gioia Tauro come a Catania siano capaci di attirare non soldi pubblici ma capitali privati internazionali. Che cercano solo casa per fare grande ricerca, per fare meccatronica, per fare tecnologia, per mettere in rete  le 30 università miste del Mediterraneo, per fare grande logistica dell’energia e dei trasporti e industria del mare che riconquistino insieme i grandi traffici commerciali.

Solo così si possono creare complessivamente le condizioni perché i cervelli del Mezzogiorno abbiano finalmente l’opportunità di potere realizzare i propri sogni nei loro territori con il massimo di soddisfazione professionale  e economica. Per attirare gli investimenti stranieri e attuare un programma di questo tipo avevamo un ambasciatore di eccezione come Mario Draghi che avviato il treno della ripartenza sui binari giusti avrebbe potuto finalmente trattare direttamente e con una sua squadra costruita ad hoc singoli investimenti dal resto del mondo e dare così il senso più compiuto  del Paese cambiato.

Quelli che oggi reclamano spasmodicamente le solite litanie meridionaliste per cui si chiede senza mai dare e quasi ci si crogiola compiaciuti in questo vano reclamare nemmeno se ne sono accorti che il Mezzogiorno ha perso il suo ambasciatore più importante nel mondo. Sono troppo impegnati a chiedere soldi e aiuti da mettere nelle mani di quei potentati territoriali e di quelle mafie locali che sono il principale nemico di uno sviluppo sano e che inquinano il tessuto civile e lo sforzo competitivo dei territori meridionali. Sono gli stessi che hanno fatto scappare i cinesi da Taranto  perché in sei anni non sono riusciti a dragare i fondali. Bisogna che la squadra del capitale privato nazionale e internazionale scenda in campo come è avvenuto con Aponte a Gioia Tauro e come molto di più potrebbe accadere se gli investimenti in logistica e di disboscamento delle resistenze endemiche venissero portati avanti.

Che cosa impedisce di costruire un grande aeroporto internazionale a Sigonella, di fare grandi campi da golf, di fare grandi investimenti sul turismo di qualità, solo per fare un esempio? L’unica cosa che oggi non manca sono i soldi. Dobbiamo piuttosto essere noi a dimostrare di avere capito, a organizzarci, a chiedere aiuto ogni volta che ne abbiano bisogno, a mobilitarci per fare, non per invocare. Alle forze politiche va chiesto solo di non ridiscutere il Piano nazionale di ripresa e di resilienza sulla quota Sud considerando le revisioni prezzi da caro materie prime e di non ostacolare il desiderio di riscossa. Che, però, deve essere reale e coinvolgere pezzi rilevanti di comunità partendo da quello sviluppo sbilanciato che esprime una terminologia sgradevole ma che uso proprio per uscire dalle ipocrisie e fare capire che bisogna muoversi da dove c’è già qualcosa per fare molto di più e contagiare positivamente chi è più indietro.

Se tutto ciò non accadrà il Pnrr di Draghi sarà stato un paracadute e ci avrà in parte messo al riparo dalla grandine e dai fulmini della guerra in Ucraina e delle crisi internazionali. Con il paracadute però si scende e non si sale. Se vogliamo salire davvero dobbiamo fare i conti con i nostri limiti in modo duro. Per una volta senza prenderci in giro e senza prendercela con gli altri.


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