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Mario Draghi prima della conferenza stampa della riunione ministeriale del G20 Turismo

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Farebbe molto male Mario Draghi se desse ascolto ai notisti politici italiani che lo invitano a non occuparsi dei nuovi vertici della Rai, prima azienda culturale del Paese che ha pericolosamente smarrito radici e identità e che le deve ritrovare a stretto giro esattamente come ha fatto in tutte le stagioni di grandi cambiamenti della Repubblica italiana. Non si può affidare il futuro della Rai alla selezione di una nuova classe dirigente da un elenco di centinaia di nomi che si autopromuovono via web in una grande fiera della vanità

FAREBBE molto male Mario Draghi se desse ascolto ai notisti politici italiani che lo invitano a non occuparsi dei nuovi vertici della Rai per non esporsi a altri contenziosi presenti e futuri con i partiti.

Sono i consigli sbagliati dei maestri del giornalismo della tattica che sono i padroni assoluti di tutti i moduli con cui muoversi sul campo da gioco, ma non si sono accorti che non c’è più il campo da gioco. O perlomeno non hanno capito che se non cambia il campo da gioco non c’è più l’Italia.

Dobbiamo fare l’esatto contrario di quello che si è fatto negli ultimi venti anni e non esistono bacchette magiche per fare dalla sera alla mattina la Nuova Ricostruzione.

Esistono l’intelligenza della ragione, il pragmatismo del fare e la credibilità internazionale dell’uomo a cui il Presidente della Repubblica ha chiesto di prendere per mano un Paese fragile molto vulnerabile perché indebitato oltremisura e incapace di crescere.

Perché è così diseguale tra donne e uomini, tra anziani e giovani, tra Nord e Sud in maniera esplosiva, da essere stato tirato su per i capelli esangue con un piede già dentro il burrone dal presidente Mattarella mettendo in campo la carta estrema, che è Mario Draghi, e il suo governo di unità nazionale.

Lo abbiamo detto ieri e lo ripetiamo oggi perché altrimenti non si può capire il ragionamento sulla Rai, prima azienda culturale del Paese che ha pericolosamente smarrito radici e identità e che le deve ritrovare a stretto giro esattamente come ha fatto in tutte le stagioni di grandi cambiamenti della Repubblica italiana. Altrimenti il grande cambiamento non ci sarà.

Altrimenti il frastuono di musicisti e orchestrali del talk commerciale della irresponsabilità in servizio permanente effettivo sulla tolda del Titanic Italia coprirà con il suo rumore l’affondamento della nave. Si andrà a picco senza neppure accorgersene.

È evidente che non si può affidare il futuro della Rai alla selezione di una nuova classe dirigente da un elenco di centinaia di nomi che si autopromuovono via web in una grande fiera della vanità e dell’incompetenza ostentate che sono incompatibili con un Paese serio. Che vuol dire essere consapevole della portata delle sfide da fare tremare vene e polsi che ha davanti.

È evidente che se si lascia questa tornata di nomine tutta in mano ai partiti scompaiono dalla graduatoria la grammatica e la sintassi che devi possedere per fare la televisione di qualità e ci sarà sempre qualche “gatto” scelto nel salotto di casa del politico di turno o in quello degli amici degli amici da piazzare come voce “narrante” nella cabina di comando auto-delegata della Rai. Pagata peraltro dagli italiani con il canone prelevato dalla bolletta elettrica.

De Gasperi e Fanfani, in due stagioni molto importanti della Ricostruzione nel Dopoguerra e del primo centro sinistra alle prese con due Rai molto diverse tra di loro, maneggiarono con molta cura e molto rispetto l’azienda culturale italiana e la affidarono in mani competenti che contribuirono in modo decisivo a alfabetizzare e unire il Paese e successivamente a guidarlo in un riformismo di massa che fece di un Paese agricolo di secondo livello prima una grande economia industrializzata poi una potenza economica mondiale.

Fecero De Gasperi e Fanfani lottizzazione di qualità attingendo a uomini come Giuseppe Spataro, una delle teste del Codice di Camaldoli del ’43, e Ettore Bernabei, ex direttore del Popolo e uomo di fiducia di Fanfani e poi di raccordo con Moro, che spinsero tutti a competere su quel terreno.

A scegliere, cioè, i migliori perché la gara doveva essere all’altezza della posta in gioco. Spataro espresse la sintonia dello spirito del momento, la lunga e gloriosa stagione di Bernabei fece la storia della tv negli anni sessanta e settanta. Fu così anche in fasi politiche successive quando si scelsero dentro e fuori la Rai persone di qualità come furono, nella profonda diversità tra di loro e per la durata dei loro mandati, l’altro storico direttore Biagio Agnes e Flavio Cattaneo che fece il più alto utile della Rai.

Non lo è stato di sicuro nelle stagioni più recenti dove si è troppo spesso ignorato il grande capitale di professionalità che è dentro la Rai e si è arrivati perfino a calpestare il patrimonio di ideazione e di realizzazione di prodotto informativo, culturale e di intrattenimento, di uomini come Minoli che hanno fatto la Rai e che della tradizione culturale dei Bernabei e degli Agnes sono stati gli eredi. Ancora una volta siamo costretti a ripeterci.

Viviamo una stagione di governo dove chi lo guida ha idee chiare e fa scelte nette, ma nei partiti della coalizione di governo non scatta niente. Sembra di assistere alla scena di un Paese che qualcuno sta un pochino pungolando, ma che non dà segni di reazione perché il suo tessuto connettivo, che è quello dei partiti e della ragnatela perversa di intrecci corporativi con informazione e giustizia, fanno muro su tutto.

Ciò è possibile perché manca il volano della consapevolezza comune della posta in gioco. Perché il club nazionale dei riformatori non ha alle spalle una centrale che fa appunto da volano, che mette in circolo le idee buone. Non c’è un lavoro alla luce del sole, trasparente, di informazione sui contenuti che può spingere la pubblica opinione a concentrarsi liberamente su queste cose che sono quelle che contano e a farsi liberamente un’opinione sua.

Non emerge quello spirito positivo che si respirava nel Viaggio in Italia di Piovene negli anni del Dopoguerra (la Rai della radio) perché quello spirito nasce se si trova un “luogo” dove farlo “precipitare”. Questo “luogo” a nostro avviso oggi come allora deve tornare a essere la Rai multimediale della radio, della tv, del web e dei social.

Il resto con altrettanta intelligenza va fatto sui social extra Rai perché l’inquinamento della discussione in Italia ha raggiunto livelli tali da richiedere un’operazione verità che restituisca ai fatti il primato sottratto dal più becero dei populismi. Siamo immersi in una stagione di grandi cambiamenti necessari che ha avuto come motore la pandemia.

Che già di per sé vuol dire molto. Non siamo noi che abbiamo deciso di cambiare perché ci siamo resi conto del precipizio dove ci eravamo ficcati con le nostre stesse mani, ma è il nuovo ’29 mondiale da crisi sanitaria (Covid 19) che ci obbliga a fare i conti con la realtà.

Per questo, Presidente Draghi, si deve sporcare le mani con la Rai mettendo la qualità a partire dal prodotto editoriale alla base delle scelte. Perché lo merita la prima azienda culturale del Paese. Perché è indispensabile questa qualità per aprire una stagione di verità nel racconto dell’Italia e del mondo.

Perché l’eccezionalità della doppia sfida della riunificazione delle due Italie e dell’affermazione di un’Europa della politica fiscale espansiva che ha in casa nostra il suo banco di prova decisivo, richiede una mobilitazione delle pubbliche opinioni come è avvenuto sempre nelle guerre vittoriose e tutte le volte che i Paesi del mondo hanno avviato e realizzato una stagione riformatrice come quella di cui ha vitale bisogno l’Italia.

Questa mobilitazione delle pubbliche opinioni ha bisogno di un’informazione mai supina che metta i contenuti prima del chiacchiericcio, che stimoli il confronto libero delle idee, non il suo degrado a pollaio delle scalette preconfezionate. Che faccia giornalismo di inchiesta senza riguardi per nessuno e documenti con criteri rigorosamente comparativi.

Che produca cultura con le grandi fiction, il grande teatro, il grande intrattenimento. Che valorizzi i talenti e formi il capitale umano del futuro. Fanfani e i dossettiani, che avevano avuto l’esperienza della Radio Vaticana, lo capirono al volo. Fecero la media unica, la nazionalizzazione elettrica, fecero il miracolo economico italiano. La Rai dell’epoca aiutò il Paese a ritrovarsi.

La stagione di Bernabei alla Rai inizia un anno dopo l’oscar mondiale della lira e aiutò il Paese riunito a galoppare. Le guerre le hanno vinto sempre i Paesi che hanno saputo mobilitare le loro opinioni pubbliche e le hanno perse tutte le volte che hanno confuso l’opinione pubblica con le burocrazie servili da cui erano circondati. Non è oggi il tempo della privatizzazione della Rai che ho sempre sostenuto per liberarla dalle mani soffocanti della peggiore partitocrazia che è quella delle cosiddette seconda e terza repubblica.

Oggi è il momento della “buona lottizzazione” per restituire alla Rai e ai grandi professionisti che vi lavorano la sua missione. È quella dei padri della prima ricostruzione. Non è disponibile il tempo per avviarsi in processi societari che farebbero perdere di vista l’obiettivo assolutamente prioritario.


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