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È anche l’ultima partita che ci è consentito giocare prima che i venti degli egoismi nazionali e internazionali riprendano a soffiare con forza appena si esce dal morso della pandemia. Serve ancora una stagione lunga di politica fiscale espansiva e un’idea sociale europea che assuma finalmente i parametri sociali come indicatori strutturali del processo di crescita. Dobbiamo smetterla di alimentare divisioni sterili e concentrarci sugli obiettivi di breve/medio termine per fare in modo che le nostre cartucce siano sparate al momento giusto. Prendiamone atto e agiamo di conseguenza

La fatica che fa l’Europa a imboccare senza indugi la politica fiscale espansiva di lungo termine e a porre al centro i “pilastri sociali” come parametro per misurare le politiche economiche e i loro effetti è esattamente la stessa che ha impedito per venti lunghi anni alla Conferenza Stato-Regioni in casa nostra di inserire l’indice di povertà tra i criteri per una equa distribuzione della spesa pubblica sanitaria, scolastica, di trasporti.

C’è qualcosa di veramente molto simile tra il miope egoismo di molti Paesi del Nord Europa che vogliono che le questioni sociali siano affrontate in sede nazionale, non europea, e quello che fa in modo che in Italia un cittadino emiliano-romagnolo riceva 84,4 euro pro capite per investimenti dalla spesa pubblica sanitaria contro i 15,9 che toccano a un cittadino calabrese. Non parliamo per carità di patria del tema semplicemente scandaloso degli asili nido, delle mense scolastiche, del tempo pieno a scuola, dell’assistenza agli anziani, dei luoghi pubblici attrezzati per lo sport, gli eventi, la cultura. I numeri della vergogna italiana sono impressionanti e interrogano le coscienze.

C’è un dato civile prima ancora che economico che attiene alle periferie delle grandi città meridionali, a quasi tutto il Sud italiano di dentro, e ai tanti Sud del Nord colpevolmente dimenticati. Se non trovi una palestra pubblica o una mensa scolastica pubblica in tutti i territori della grande provincia partenopea anche dove si snoda sul mare con palazzi come birilli una sequela di Comuni molti dei quali hanno da soli una popolazione superiore a quella di Pisa, hai la prova fisica, tangibile, della latitanza civile, sociale e economica dello Stato italiano.

Hai, forse, anche qualcosa di più: il segno concreto della sconfitta di un Paese che condanna territori interi al sottosviluppo e convive con zone opache diffuse dove la mala pianta ha spesso gioco facile su quella buona. Come si possa anche solo concepire un disegno di sviluppo nazionale senza affrontare di petto l’iniqua distribuzione della spesa pubblica nei servizi sociali e nel contesto infrastrutturale di sviluppo tra Nord e Sud del Paese, appare ai nostri occhi semplicemente velleitario.

Ci lascia il retrogusto amaro di quel federalismo regionale della irresponsabilità che consente ai territori ricchi di sopravvivere parassitariamente sottraendo ai poveri ciò che è loro dovuto. Si sono appropriati indebitamente di così tante risorse pubbliche che spettavano a altri, da “importare” con esse le radici della mala pianta dell’assistenzialismo e, in molti casi, ormai addirittura di quella ancora più odiosa della penetrazione di organizzazioni criminali in gangli sempre più larghi delle attività economiche quasi tutte finanziate dalle Regioni.

Questa è la dura realtà che ha la sua sintesi algebrica nelle gigantesche disparità tra regioni, tra uomo e donna, tra giovani e meno giovani, tra chi ha il posto fisso e chi non ce l’ha. Il divario nel tasso di occupazione in Europa tra uomini e donne è di 11,3 punti, ma in Italia è esattamente il doppio. Un terzo della popolazione italiana vive nel Mezzogiorno ma solo un quarto di essa trova occupazione. Fermiamoci qui.

Abbiamo avuto molto piacere che sia stato proprio il Presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, a porre in Europa il tema di agire non a parole su questo versante a partire dalla conferma strutturale del programma Sure da 100 miliardi che sono interventi di sostegno sul mercato del lavoro. Per questo la dichiarazione del Consiglio europeo di Porto, determinata proprio dall’azione incessante del Premier italiano, assume un valore simbolico che non va sottovalutato.

Dobbiamo smetterla di alimentare divisioni sterili e concentrarci sugli obiettivi di breve/medio termine per fare in modo che le nostre cartucce siano sparate al momento giusto. Questa non è l’Italia come dovrebbe essere e non è l’Unione europea come dovrebbe essere, è stato autorevolmente detto. Prendiamone atto e agiamo di conseguenza. È un fatto che siamo chiamati a fare i conti con la lucidità delle analisi di Draghi e con la consapevolezza del suo governo di utilizzare il Recovery plan italiano per cambiare tutto nella macchina degli investimenti pubblici e delle sue regole, per investire in capitale umano e in infrastrutture immateriali e materiali, per cominciare a affrontare con realismo le disparità non più tollerabili nella spesa per gli asili nido. Tutto ciò significa che si sta provando a fare le cose in modo giusto.

Che l’Europa debba compiere lo stesso percorso è cosa pacifica così come è bene avere coscienza delle difficoltà che si incontreranno perché qui gli egoismi sono altrettanto radicati ma in alcuni casi si presentano anche addirittura come non scalfibili. Manca in Europa il coraggio avuto in Italia di provare a cambiare dopo vent’anni di inerzia a nostro avviso pericolosa, ma dovrà darselo per forza perché altrimenti il sistema europeo non si tiene e il Mezzogiorno, come tutti i territori europei fragili, pagherà il prezzo più pesante. Poi, però, toccherà anche a quelli che credono di stare meglio.

Questa è la doppia partita che l’Europa e l’Italia debbono vincere. È anche l’ultima partita che ci è consentito di giocare prima che i venti degli egoismi nazionali e internazionali riprendano a soffiare con forza appena si esce dal morso della pandemia. Serve viceversa ancora una stagione lunga di politica fiscale espansiva e un’idea sociale europea che assuma finalmente i parametri sociali come indicatori strutturali del processo di crescita.


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