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Giorgia Meloni

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Se continuate ad aggiungere vagoni al treno in corsa, prima ne perdete un po’ per strada, poi fate rallentare la locomotiva. Torniamo ad essere considerati i soliti italiani. Abbiamo invece un miracolo di reputazione e crescita da preservare. Chiedere prima più tempo per il Pnrr è un errore perché ti dicono di no. Ripetere che è in ritardo la tabella dei cantieri di cui non ti chiedono conto perché aspettano il 2023, insinua dubbi nelle strutture tecniche europee che loro non hanno. Bisogna lavorare in silenzio cambiando ciò che non va, centralizzando e consolidando i poteri di supplenza oltre la moral suasion. Bisogna trasferire sicurezza agli interlocutori europei e fare piuttosto le riforme concordate. Se no si fa il gioco di chi vuole riprendersi lo spazio che Draghi ha conquistato in Europa e fuori per l’Italia sottraendolo non proprio agli ultimi della comitiva come sono i Paesi Fondatori Francia e Germania, ma anche la Spagna e l’Inghilterra post Brexit.

Non fermate il treno in corsa. Se continuate ad aggiungere vagoni, prima ne perdete un po’ per strada, poi fate rallentare la locomotiva. Alla fine, inevitabilmente, si ferma del tutto. Bisogna piuttosto andare avanti con il lavoro straordinario fatto, difendendolo e innovandolo dove serve, impegnando qui il massimo di concentrazione, e avendo cura prima di ogni altra cosa di non arretrare di un millimetro sul cantiere riformista italiano. Che significa riforma della concorrenza, semplificazioni burocratiche, attuazione delle riforme della giustizia, incentivazione dei pagamenti digitali.

Sono tutte cambiali sottoscritte dal governo della Repubblica italiana di unità nazionale con in maggioranza due degli azionisti dell’attuale esecutivo politico a guida Meloni, Lega e Forza Italia, che vanno onorate nei tempi e nelle modalità concordate così come peraltro è avvenuto fino a oggi.

Si sta facendo invece di tutto per tornare a essere i soliti italiani. In uno scenario di una Germania allo sbando e di una Francia che attraversa una transizione anche politica complicata aveva guadagnato spazio e credito l’Italia di Draghi diventata il modello per l’Europa e un punto di riferimento per gli investitori mondiali.

Questo giornale in assoluta solitudine ha raccontato il miracolo nascosto di questa stagione dove non solo si è realizzata la crescita migliore delle grandi economie europee, ma si è addirittura fatto quasi due punti di Pil in più rispetto a un rimbalzo monstre che non abbiamo mai avuto dopo le cadute seguite alla crisi finanziaria e a quella dei debiti sovrani.

A differenza delle due grandi crisi internazionali precedenti che avevano visto il Mezzogiorno italiano precipitare, questa volta lo stesso Mezzogiorno è uscito dal Covid mettendo a segno per l’intero 2021 e fino a giugno 2022 una crescita superiore alla media europea. Si sono ridotti di due punti percentuali il rischio di povertà e di un punto percentuale le diseguaglianze dopo decenni di aumenti inarrestabili.

A ottobre di quest’anno siamo a mezzo milione di occupati in più a tempo indeterminato rispetto al 2021 e abbiamo messo a segno la migliore performance dal 1977 a oggi. Nel terzo trimestre di quest’anno, non dell’anno scorso, sono esplosi gli investimenti delle imprese in macchinari e prodotti e, in controtendenza rispetto all’Europa, il dato più aggiornato segnala in ripresa gli indici di fiducia delle famiglie, delle imprese, del commercio al dettaglio. L’immagine dell’Italia è cambiata radicalmente in venti mesi e sprecare questa eredità per chi oggi ci governa è autolesionismo allo stato puro.

Più o meno questo è quello che sta accadendo con i presunti ritardi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Perché a furia di gridare al lupo al lupo c’è il rischio di finire sbranati. Chiedere più tempo prima è un errore perché ti dicono di no. Continuare a dire che è in ritardo la tabella di marcia dell’apertura dei cantieri di cui la Commissione europea non ti chiede conto perché per loro il primo cantiere va aperto nel primo trimestre del 2023, insinua dubbi e perplessità nelle strutture tecniche europee che al momento non hanno.

Siamo noi a farci del male quando invece abbiamo un capitale di reputazione acquisito da sfruttare che ci permette di superare quelle storiche lentezze che segnano l’operatività e che sono state in parte superate passando dallo zero spaccato del ventennio precedente ai dieci/quindici miliardi messi già in campo ma ovviamente insufficienti se in pochi anni si devono fare investimenti che valgono dieci punti di Pil. Bisogna lavorare in silenzio cambiando ciò che va cambiato e tenendo quello di buono che c’è centralizzando il più possibile e consolidando al massimo i poteri di supplenza che non possono limitarsi alla moral suasion.

Ripetiamo da giorni che questo governo per il capitolo più delicato della sua scommessa cruciale, che è proprio la spesa produttiva in tempo reale dei fondi europei, deve trovare il suo Figliuolo che permetta di capitalizzare la scelta vincente di avere riunite le deleghe sotto un unico dicastero e un unico ministro che si chiama Raffaele Fitto e conosce bene la materia sia sul fronte interno che su quello europeo. Bisogna fare questo, non altro. Soprattutto bisogna farlo in silenzio e trasferendo sicurezza agli interlocutori europei non parlando noi di ritardi di cui loro non ci chiedono conto. Perché come abbiamo già scritto i nostri competitor europei hanno una grande voglia di riprendersi parte dello spazio di credito internazionale che Draghi aveva conquistato in Europa e fuori per l’Italia sottraendolo non proprio agli ultimi della comitiva come sono i Paesi Fondatori Francia e Germania, ma anche la Spagna e l’Inghilterra post Brexit.

Macron che corre da Biden per fare dare alla Francia quella benedizione di priorità nell’alleanza economica e geopolitica che l’America dello stesso Biden aveva già dato all’Italia di Draghi dovrebbe per lo meno consigliarci estrema cautela. Stiamo già scherzando il con il fuoco per bandierine ideologiche da qualche centinaia di milioni di euro e qualche centinaia di migliaia di voti (forse) che sono la flat tax incrementale e il tetto alzato per l’obbligo di Pos, non è il caso di aggiungere altra legna sul fuoco. Soprattutto perché si rischierebbe di apparire in contrasto con gli impegni sottoscritti nel contratto europeo che parlano esplicitamente di incentivazione dei pagamenti digitali e di lotta all’evasione fiscale. Dobbiamo cambiare, certo. Sappiamo che la governance va rafforzata, ma facciamolo lavorando sodo e parlando poco. Proprio come si fa nelle grandi democrazie quando sono anche efficienti. L’immagine che l’Italia ha ancora oggi nel mondo e che non possiamo permetterci di sprecare.


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