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Stretta di mano tra Giorgia Meloni e Abdelmadjid Tebboune presidente della Repubblica algerina

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Giorgia Meloni ha capito la portata della sfida del nuovo asse geopolitico Sud-Nord determinato dalla guerra di Putin nel cuore dell’Europa. Si è mossa bene proseguendo sul cammino tracciato dal governo Draghi ispirandosi ai principi della stagione politica di Enrico Mattei, ma deve evitare che si banalizzi la complicazione della sfida dell’Italia come hub energetico dell’Europa e si sottovalutino le insidie internazionali di una partnership italiana non predatoria con i Paesi africani. Serve la mediazione di una forza comune europea in cui confluiscono tutte le componenti con l’Italia naturalmente al centro. Se si vuole sopravvivere in questo grande gioco e fare i passi avanti che dobbiamo fare occorre rafforzare la partnership con la Germania e portarla a condividere la scelta di cercare e trovare insieme il nuovo Delors della nuova politica estera europea comune.

Dipanarsi in una disputa tra armi offensive e difensive è un esercizio di tipo speculativo perché una vera distinzione tra le prime e le seconde è praticamente impossibile. Visto che per difenderti non hai altra arma che offendere chi ti sta venendo addosso. Il pacifismo è una cosa seria, ma ci sono sue emanazioni pelose che non riescono a comprendere che votare il decreto per mandare le armi in Ucraina significa consentire a un Paese aggredito di difendersi. A parte Cinque Stelle e Sinistra italiana su questo punto sono tutti d’accordo compreso il Pd tranne una voce isolata.

L’alternativa a questo tipo di scelte nella situazione di oggi non esiste, ma nessuno rinuncia ad accompagnare tali decisioni con la solita frase che è “bisogna fare anche diplomazia”. Se qualcuno sa come si deve fare, se ci indica anche chi vuole fare diplomazia, ovviamente ne siamo felici. Se ha qualche idea concreta per prendere qualche iniziativa seria venga allo scoperto e ci spieghi bene come fa a farsi ascoltare dagli uni e dagli altri, da chi ha invaso e da chi è stato aggredito. Non ci riescono, al momento, grandi potenze come Stati Uniti e Cina, figuriamoci se possiamo riuscirci noi. Fuori dalle chiacchiere o fai parte del grande gioco o sei fuori. Il grande gioco si è avviato e, per fortuna, l’Italia si è schierata dalla parte giusta. Questa è la realtà. Almeno fino a che non si arriva alla vittoria di una parte o a un accordo di compromesso peraltro sempre più difficile e sempre più lontano. Per la semplice ragione che è difficile per un dittatore dire che sono morte oltre centomila persone e che hai prodotto questo crimine mondiale dell’umanità per tornare alla Crimea alla Russia e all’Ucraina come era prima.

È ovvio che non si può permettere neppure di fare pensare e dire alla sua gente che se non si faceva niente era meglio. Quindi a questo punto del conflitto una delle due parti deve vincere più o meno a pieno rispetto ai suoi obiettivi. Il problema di Putin è che fa i conti con il suo errore capitale che lo condanna nella storia. È stato compiuto sotto la spinta del bisogno di fare la guerra imperialista per consolidare il suo primato interno messo in discussione o perché divorato dall’illusione di passare alla storia come successore di Pietro il grande. Non lo sappiamo, sappiamo che questo errore non recuperabile lo ha commesso. Il richiamo allo spirito di Helsinki è certamente giusto perché è quello lo spirito che può aiutare anche oggi avendo però ben presente che quella conferenza internazionale a cui l’Italia era rappresentata al massimo livello da Aldo Moro si proponeva di perseguire scopi di deterrenza nell’utilizzo delle armi in vista di una guerra futura. Cosa complicata, ma più facile rispetto al contesto di oggi che è di una guerra già in atto.

Dopo quella storica intesa cominciarono i movimenti di protesta di cecoslovacchi e polacchi impegnati a chiedere alla Russia di garantire la dialettica democratica. All’epoca questi movimenti furono repressi brutalmente anche se venti anni dopo hanno avuto i loro effetti. Oggi questo spirito di Helsinki, cruciale più di allora, potrebbe avere sicuramente effetto se crollasse Putin perché è lui che ha mandato la gente a morire e perché è sempre lui che ha invaso uno Stato sovrano nel cuore dell’Europa. È già successo nella fine di altre dittature e è vero che oggi c’è grande insoddisfazione intorno a Putin. È pure vero, però, che la sua nomenclatura anche se pensa che è un matto resta per ora consapevole di non avere gli strumenti per buttarlo giù e, soprattutto, pensa che con la caduta di lui verrebbero travolti anche loro. Al mondo oggi serve un grande accordo di Cina e Stati Uniti sulla Russia. Purtroppo, fino a quando cinesi e americani continuano a chiedersi chi di noi due ci guadagna di più è evidente che né gli uni né gli altri vogliono davvero l’accordo. Oggi, anche per questo, servirebbe all’Europa un altro Delors. Bisogna che quello che lui ha fatto nel sistemare l’integrazione economica europea in un quadro politico che esiste avvenga oggi con un’integrazione di politica europea in un nuovo quadro di politica estera comune. Al Delors dell’economia deve succedere un Delors della politica estera e della diplomazia.

L’atto unico voluto da questo storico presidente della Commissione europea darà vita nel lungo termine a tantissimi cambiamenti fino all’euro come atto significativo di quel preambolo che riguardava l’unione economica e monetaria e si misurò con la strenua opposizione della lady di ferro inglese, Margaret Thatcher, tenendola dentro. Il nuovo atto unico della politica estera dell’Europa di oggi deve riflettere la portata della sfida che deriva dal nuovo asse geopolitico, determinato proprio dalla guerra nel cuore dell’Europa, che è quello Sud-Nord che prende il posto del tradizionale asse Est-Ovest. Tutto questo è necessario che venga mediato da una forza comune europea in cui confluiscono tutte le componenti europee. Con l’Italia che per ragioni geografiche di posizionamento e storiche (è più piccola economicamente di Germania e Francia) si trova naturalmente al centro di questo processo comune di nuova politica estera che è frutto del mutato quadro geopolitico e della guerra mondiale delle materie prime che ne è derivata restituendo all’Africa un ruolo che non riguarda solo la materia prima energetica ma anche quella dell’economia del futuro.

Giorgia Meloni ha capito bene la portata di questa partita e si è mossa in modo accorto proseguendo sul cammino tracciato dal governo Draghi ispirandosi ai principi della stagione politica di Enrico Mattei, ma deve evitare che si banalizzi la complicazione della sfida dell’Italia come hub energetico dell’Europa e si sottovalutino le insidie internazionali di una partnership italiana non predatoria con i Paesi africani. Se si vuole sopravvivere in questo grande gioco e fare i passi avanti che dobbiamo fare occorre rafforzare la partnership con la Germania e portarla a condividere la scelta di cercare e trovare insieme il nuovo Delors della nuova politica estera europea.


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