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È bene prendere coscienza che l’Europa vuole fare ricondurre entro certi limiti la spesa primaria al netto degli interessi e degli stabilizzatori automatici a tutti i Paesi. La regola della spesa per alcune economie europee va bene, per noi ha un impatto pesante. È singolare che nessuno ne parli perché incide sulle nostre stesse norme di finanza pubblica. La flessibilità avuta nel 2022 di usare le maggiori entrate di un ciclo migliore non esisterà più. L’attuazione degli investimenti del Pnrr comporta un post Pnrr di spesa corrente che tocca la sanità elevandola e la nuova regola della spesa non permette di farlo. Andranno assunti o no nuovi medici e nuovi infermieri per fare funzionare gli ospedali rimessi a posto già carenti di organico e quelli nuovi che partono da zero? Come si farà a adeguare pensioni e assegno unico all’inflazione?

Non ci resta che sperare nello scalino della concorrenza per fare scendere i prezzi italiani e evitare che la valanga del caro tassi travolga tutto e tutti. C’è il rischio concreto che anche l’ultimo effetto di trascinamento del caro bolletta si esaurisca senza che nulla accada sui prezzi finali di vendita. C’è il rischio concreto che l’estrema volatilità dei mercati e i cicli sempre lunghi delle materie prime facciano risentire i loro effetti senza che si siano tolti dal tavolo quei costi non da inflazione ma da profitto sussidiato del mondo della produzione, del commercio e dei servizi che specula proprio sull’inflazione.

Questa tassa occulta prodotta da indebiti profitti fa in modo che la componente core dell’inflazione continui a salire e spinga suicidi comportamenti prolungatamente e anticipatamente rialzisti delle banche centrali. A partire da quella europea. Sono alcuni giorni che insistiamo su questo punto totalmente sottovalutato nel dibattito della pubblica opinione italiano. Lo facciamo per alcune ragioni di fondo. La prima è che abbiamo come Paese tassi e rendimenti comparabili con quelli della Grecia a causa del nostro maxi debito pubblico e siamo penalizzati da un giudizio dei mercati sui titoli sovrani italiani totalmente ingiustificato rispetto ai fondamentali della nostra economia e ai tassi di crescita da locomotiva europea registrati negli ultimi due anni.

La seconda è che proprio il dinamismo che hanno dimostrato le nostre imprese a livello internazionale e la capitalizzazione in termini di aiuti europei e di riduzione dei vincoli interni alla crescita determinata dalla fiducia internazionale conquistata dal governo Draghi rendono oggi l’Italia un concorrente più agguerrito per Francia e Germania e nessuno vuole lasciare spazi liberi agli altri in un contesto globale così complicato. Questo Giorgia Meloni lo sa e per questo si è mossa in economia nel solco tracciato da Draghi che fa da scudo al Paese. La terza fondamentale ragione è che la nuova regola della spesa pubblica inserita nella bozza del nuovo patto di stabilità e crescita europeo è insidiosissima per l’Italia.

Si parla di porre un tetto di crescita alla spesa pubblica primaria e, cioè, al netto degli interessi e degli stabilizzatori automatici che oscilla dall’1,6 all’1,8% mentre già oggi cresciamo almeno del 2,5% in virtù di adeguamenti obbligati come la contingenza ai pensionati e di oneri già assunti e ampiamente insufficienti in materia sanitaria. Non si potrà più tornare alla stagione di prima con i suoi target irraggiungibili del debito/Pil al 60% e del deficit/Pil al 3% perché l’obiettivo del nuovo patto di stabilità e crescita europeo è quello di guardare in modo effettivo al raggiungimento di un tasso di deficit/ Pil sotto il 3% e a un contestuale altrettanto effettivo abbassamento del rapporto debito/Pil da perseguire con risultati verificabili nell’arco di 4/7 anni.

Per questo è bene che si prenda subito coscienza in casa nostra che bisogna fare i conti con un’Europa che vuole fare ricondurre entro certi limiti la spesa primaria al netto degli interessi e degli stabilizzatori automatici a tutti i Paesi. La regola della spesa per alcune economie europee va molto bene, per altre no. Per noi l’impatto in termini assoluti può essere quello più pesante di tutti.

È veramente singolare che nessuno ne parli perché questo tipo di decisioni in Italia va a incidere sulle nostre stesse norme di finanza pubblica. Vale ancora l’equilibrio di bilancio? Vale ancora il pareggio di bilancio? Va modificato l’articolo 81? La legge rafforzata attuativa dell’articolo 81 va cambiata o no? Non tutti sono oggi consapevoli che la flessibilità che si è avuta nel 2022 di potere usare le maggiori entrate frutto di un ciclo migliore del previsto non esisterà più.

Non tutti sembrano avere consapevolezza che l’attuazione che auspichiamo con successo degli investimenti del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) comporta un post Pnrr che in termini di spesa corrente incide sulla sanità elevandola in modo strutturale in un ordine di grandezza che va da sette a dieci e che la nuova regola della spesa del nuovo patto europeo ti impedisce di onorare gli impegni assunti come ricaduta degli investimenti felicemente attuati. Andranno assunti o no nuovi medici e nuovi infermieri per fare funzionare gli ospedali rimessi a posto già carenti di organico e quelli nuovi che partono da zero? Andranno pagate di più sì o no le pensioni? L’assegno unico andrà adeguato all’inflazione incamerando il differenziale di prezzi sì o no?

Vedete che si torna sempre lì, a quel prezzo della tazzina di caffè che si è portato su di venti centesimi e nessuno pensa di farlo tornare indietro. Nel frattempo almeno guardiamo bene le nuove regole europee e cerchiamo di mettere al sicuro il massimo di crescita possibile non drogata perché i margini di finanza pubblica che avremo saranno sempre più ristretti. Almeno cominciamo a parlarne.


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