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La sede Rai di via Teulada a Roma

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Ben venga la nuova stagione di nomine in una Rai che ha perso la bussola della sua funzione pubblica informativa e di intrattenimento, ma su reti e apparati dello Stato strategici siamo all’umiliazione della politica. Pensare che queste nomine siano apolitiche è un’utopia, ma se sono oggetto di mercimonio pubblico la politica cade nelle mani o di boiardi che sono vassalli che tendono a diventare padroni o di servi che attaccano l’asino dove vuole il padrone anche se si sveglia e cambia idea una volta al giorno perché debutta nel gioco del grande potere. A nessuno interessa più di tanto che resti tizio o arrivi caio perché è dentro di noi una cultura che tutto è un gioco di palazzo. Si pensa che quasi mai contano i risultati che o non ci sono o sono difficili da vedere perché il polverone mediatico impedisce di legarli alla persona.

Vogliamo subito sgombrare il campo da ogni genere di equivoco. Se le dimissioni di Carlo Fuortes da amministratore delegato della Rai porteranno alla nomina di Roberto Sergio alla guida della azienda pubblica noi ne saremmo contenti. Perché si valorizza chi la Rai la conosce come pochi e ha fatto bene ovunque si sia ritenuto di utilizzare la sua professionalità nell’azienda pubblica. È un uomo Rai prima di tutto e non di quelli alla Coletta e alla Berlinguer che inseguono le tv commerciali in un degrado contenutistico pericoloso dell’offerta pubblica informativa e di intrattenimento.

Nutriamo qualche fondata speranza che la scelta probabile di Roberto Sergio possa consentire il recupero di quelle condizioni minime di competenza e di equilibrio che, solo per fare un esempio, il tg1 diretto da Monica Maggioni ha perso in modo progressivamente crescente in termini di credibilità con ondeggiamenti verticali a seconda del vento imperante della politica semplicemente imbarazzanti. Tutto questo senza nemmeno dovere aprire il capitolo degli ascolti.

Vogliamo anche aggiungere che il gesto delle dimissioni e le motivazioni addotte da Fuortes segnalano la dignità dell’uomo delle istituzioni e del manager che mette l’interesse dell’azienda al primo posto e gli fanno onore entrambi al netto delle chiacchiere su sistemazioni presunte saltate o eventuali nuove in arrivo. Sono, a nostro avviso, espressione di una coerenza di principi che dovrebbe avvertire prima di tutti la presidente, Marinella Soldi, facendosi sua sponte da parte. In certi casi, la sensibilità fa la differenza per l’oggi e per il domani. Voglio dire che i danni o i vantaggi del gesto nobile obbligato durano nel tempo in un senso o nell’altro. Vengono rinfacciati o elogiati per sempre.

Detto questo, mentre nelle nomine delle grandi aziende pubbliche di mercato al netto di qualche aggiustamento di troppo si sono preservati principi sani di competenza, nella fase successiva che riguarda tra l’altro i vertici dei grandi apparati dello Stato, a partire da polizia e guardia di finanza, grandi reti strategiche e molto altro, qualcosa di abbastanza serio non ha funzionato e bisogna porvi rimedio. Perché altrimenti si arriva alla conclusione che questo Paese avendo politicizzato tutto non sa fare le nomine. Pensare che queste nomine siano apolitiche è un’utopia, ma il fatto che diventino oggetto di un mercimonio pubblico di politica politicante distrugge tutto.

Perché la politica umiliata dalle sue divisioni e dai suoi tripli giochi finisce con il cadere nelle mani o di boiardi che altro non sono che vassalli che tendono a diventare padroni o di servi che attaccano l’asino dove vuole il padrone anche ogni volta che si sveglia e cambia idea, cosa che accade cinquanta volte a settimana se il padrone è inesperto perché alla sua prima volta nell’esercizio delle leve del grande potere.

Questa cosa molto importante non è colta dall’opinione pubblica e, di fatto, non interessa a nessuno. Né alla gente normale né ai cosiddetti addetti ai lavori alla fin fine interessa più di tanto che resti tizio o arrivi caio. Perché è entrata dentro di noi questa cultura che tutto è un gioco di palazzo e quasi mai contano i risultati che poi, di fatto, o non ci sono o sono difficili da vedere perché nella confusione della polvere mediatica esistente è sempre complicato legarli alla presenza di una persona.

Questo gioco di palazzo da troppo tempo tocca anche apparati dello Stato come polizia e guardia di finanza e, cioè, qualcosa di talmente istituzionale che dovrebbe addirittura essere sganciato da ragioni di partigianeria da parte di chi governa pro tempore che dovrebbe sempre fare nomine in coerenza con le esigenze del sistema e la durata dei mandati dei nominati. Quando c’erano i partiti – i comunisti, i socialisti, i liberali, i repubblicani, anche l’arcipelago democristiano sulle cose di fondo perché le correnti erano tanti isolotti – dentro di loro la pensavano tutti secondo una stessa corrente di pensiero, la politica di oggi è diventata  invece un popolo di monadi per cui ognuno la pensa come vuole e cambia pure idea dalla mattina alla sera molto spesso.

Perdiamo tempo con questi giochi di palazzo mentre bisognerebbe essere tutti impegnati a fare riforme importanti, a partire da quella della amministrazione pubblica, ma come potrebbe essere diversamente se abbiamo un’informazione televisiva che fa opinione deteriore attraverso le sue tv private commerciali arrivando addirittura nella tv pubblica, come è nel caso della Berlinguer su Rai3, a scopiazzare in peggio quella stessa deriva demagogico-populista dell’informazione privata radicalizzata, partigiana o che dir si voglia. Che è poi esattamente quella che egemonizza da troppo tempo, eccezioni a parte, lo strumento-chiave dei talk show.

Un Paese che dovrebbe concentrarsi su come spendere 300 e passa miliardi di fondi europei, che dovrebbe concentrarsi su come riorganizzare e rendere efficiente la sua macchina pubblica, che ha bisogno di contare in Europa su una politica estera che collochi l’Italia al fianco dei Fondatori ma con una priorità nuova che è quella del Mediterraneo, vive in casa di un dibattito della pubblica opinione, soprattutto televisivo, che di tutto ciò o non si occupa o se ne occupa solo in chiave di polemiche personalistiche, quasi da avanspettacolo.

Che cosa ci può essere di peggio per un Paese che l’Europa vuole aiutare a superare il suo divario territoriale interno e che per di più dimostra una capacita sostenuta di ripresa della sua economia, di un dibattito così malato della pubblica opinione? È chiaro o no che impedisce di moltiplicare gli effetti positivi dell’economia e della lotta ai divari con il motore della fiducia che invece deriverebbe assolutamente da un dibattito pubblico serio?

Le stagioni degasperiana e fanfaniana sono molto in là nel tempo passato, ma a nostro avviso restano ancora un punto di riferimento per il futuro. Chi è venuto dopo di loro ha scelto molti amici loro, ma anche per evitare ingenerosi processi sommari è importante capire chi sono gli amici. Perché  anche dagli amici che scegli vieni giudicato. Le differenze esistono. Resta il fatto che chiunque ha avuto un briciolo di potere si è fabbricato il suo buco di piccoli interessi in questo sistema scassato, ma se il sistema resta così prima o poi crolla e chiude tutti i buchi, piccoli o grandi che siano. Almeno cerchiamo di averne consapevolezza.


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