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Olaf Scholz e Giorgia Meloni

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Italia e Europa hanno due alternative davanti al grande shock commerciale. O stanno ferme e perdono in partenza. O si dotano di un esercito in comune e fanno politica economica e investimenti comuni. Questa è la lezione dell’europeista Draghi che vale per Scholz come per la Meloni ieri insieme a Roma. Per loro la partita chiave è quella degli investimenti industriali giocata sulla delocalizzazione nel nostro Mezzogiorno di pezzi delle filiere produttive tedesche accorciando le catene. L’Europa ha litigato per mesi sul fatto se potesse o no dipendere dai servizi finanziari dell’Inghilterra mentre dipendeva dall’energia di un dittatore che ha invaso l’Ucraina certo di espugnarla per la convinzione di potere ricattare con il suo gas e il suo petrolio l’Europa intera. Pensava Putin di avere già comprato il suo silenzio. Cerchiamo di dimostrare di avere capito la lezione.

CI SONO la geopolitica e il passo europeista nell’intervento di Mario Draghi al Mit di Boston, dove ha ritirato il Miriam Prozen Prize dal Golub Center for Finance and Policy, per la sua leadership in politica finanziaria. C’è, soprattutto, la sottolineatura di quel cambio di paradigma che la guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione, assieme alle tensioni con la Cina, hanno messo in evidenza. Un «cambio di paradigma» che ha spostato silenziosamente la geopolitica globale dalla competizione al conflitto. Per cui la globalizzazione, che si pensava inarrestabile, è in crisi. Cosicché mentre tutti erano impegnati a celebrare la fine della storia, la storia preparava il suo ritorno. Anche perché non sono mancate cecità e, questo lo aggiungo io, connivenze di Paesi forti che si capiranno meglio dopo, che hanno fatto in modo che i segnali che arrivavano dalla Russia ancorché molto chiari e da molto tempo, prima in Cecenia, poi in Georgia e in Crimea, non venissero colti.

Tutto questo mentre nel mondo occidentale l’elezione di Donald Trump e la Brexit mostravano la «disaffezione» verso un modello economico e sociale percepito come «iniquo e privo di tutele». Pandemia e guerra hanno accelerato questi trend, riportando in primo piano il ruolo del governo nell’economia. La parola chiave di tutto ciò che rappresenta il mondo nuovo, come questo giornale sostiene da tempo, si chiama reshoring, che significa riportare dentro in Europa pezzi di produzione che si erano delocalizzati in Cina, in Russia o dove si riteneva più conveniente e accorciare le catene delle filiere produttive. Questo non significa affatto rinunciare a un assetto del commercio internazionale basato sugli scambi e sull’integrazione perché questo è ciò che rende più facile lo sviluppo della tecnologia e l’ottimizzazione delle catene di produzione nel mondo, e questo vale sempre e comunque soprattutto per un Paese esportatore come l’Italia.

Significa piuttosto prendere atto in fretta che l’Ucraina deve vincere sulla Russia altrimenti il colpo per l’Europa sarebbe fatale e, soprattutto, che il mondo è già cambiato e noi dobbiamo ridurre il tasso di rischio delle nostre economie che dipendono da quelle di Paesi che hanno un tasso di sviluppo così arretrato da potersi fermare da un momento all’altro o, peggio, da Paesi in mano a dittatori. Questo è il vero dibattito che dovremmo avere in Italia e in Europa e che dovrebbe portarci a interrogare su come avere in sicurezza l’acceso alle terre rare e a tutti quei minerali che non abbiamo nemmeno investito per cercarli. Non abbiamo mai nemmeno riflettuto fino in fondo che se la Russia si fosse presa l’Ucraina si prendeva il mercato delle derrate alimentari e se si prendono il grano mondiale e decidono di chiudere le forniture si ferma tutto e le diseguaglianze globali esplodono in modo non ricomponibile.

Aprire questo dibattito significa acquisire in modo maturo la consapevolezza che noi, come Italia e come Europa, abbiamo delle grandi opportunità per riportare dentro quello che prima era fuori. Ovviamente non magliette, ma parte delle tecnologie sì. Significa capire come ricostruire le catene dei semilavorati e fare i conti con il problema dell’autonomia strategica che vuol dire che alla lunga non potrai più produrre auto elettriche se tutti i chip sono prodotti in Cina e non puoi nemmeno escludere che la stessa Cina possa fare a Taiwan un atto folle e premeditato come è stato quello di Putin in Ucraina. Non puoi non porti il problema di avere altre fonti di energia alternative a quelle che ti hanno dato per una vita i russi e arrivare alla conclusione che il vento, il sole e le maree che ti servono oggi per produrre l’energia del futuro in Europa li abbiamo noi con il nostro Mezzogiorno, non i tedeschi.

Siamo stati dipendenti per una vita dal petrolio dei norvegesi o dal gas degli olandesi, oggi è il momento di garantire a noi stessi e agli altri in un quadro europeo che torna a fare investimenti insieme proprio quella energia da sole e vento che serve. Tutelando lo scambio possibile di tecnologia e di ottimizzazione delle catene dentro un mondo che è cambiato e che inevitabilmente richiederà nuovi sforzi pubblici. Di fronte alla nuova situazione che abbiamo davanti per Italia e Europa ci sono due alternative. O stare fermi e rimanere passivi, usare i propri bilanci nazionali, cumulare sovranità, e allora abbiamo già perso in partenza. O agire da europei dotandosi di un vero esercito in comune, politica economica e investimenti pubblici comuni, avendone la volontà politica e la capacità tecnica di perseguirli e attuarli. Questa è la lezione del grande europeista Draghi che invita a fare i conti senza infingimenti con il nuovo quadro geopolitico determinato dalla guerra di invasione russa in Ucraina e dalle verità nascoste rivelate dalla crisi pandemica globale.

Questo vale per Scholz come per la Meloni che si sono incontrati ieri a Roma. Che devono andare oltre la superficie perché su nuovo patto di stabilità e crescita europeo si gioca molto del loro futuro reciproco. Come, più ancora che sulla gestione del dossier importantissimo dei migranti, è su quello degli investimenti industriali e sulla delocalizzazione nel nostro Mezzogiorno di molte delle filiere produttive tedesche che ancora di più si gioca oggi il futuro dell’Europa e delle sue due grandi manifatture. È chiaro che questo tipo di ragionamento, in altri ambiti, vale ancora di più per Macron e il rapporto tra Italia e Francia che deve prima di tutto essere espressione di un disegno davvero europeista che coinvolga tutti.

Nel dibattito interno italiano maggioranza e opposizione dovrebbero confrontarsi da mattina a sera su questo shock che ha subito l’assetto del commercio internazionale a causa di pandemia e guerra mettendo in crisi un trend che appariva immutabile, ancorché portatore di tanti difetti, produttore di diseguaglianze e espressione di una concentrazione di potere che appariva non scalfibile. Ora si è scoperto che questo non è più l’assetto prevalente e neppure sostenibile. L’Europa ha litigato per mesi sul fatto se potessimo o no dipendere dai servizi finanziari dell’Inghilterra mentre, chi più chi meno, tutti i Paesi europei dipendevano dall’energia di un dittatore che ha fatto la guerra all’Ucraina perché aveva una ragionevole convinzione di riuscire a vincerla in tempi ristretti. Fondata sul fatto che poteva ricattare con il suo gas e il suo petrolio l’Europa intera. Pensava Putin di avere già comprato il silenzio dell’Europa. Non è andata così, ma ora bisogna essere conseguenti.

Dobbiamo essere sempre pronti a integrarci con gli altri, ma anche essere in grado di camminare con i piedi nostri. Che non sono solo quelli italiani, ma quelli europei dove noi siamo per ragioni geografiche e storiche collocati in prima linea. Perché se i cinesi hanno un’altra pandemia o decidono di investire per loro tutte le tecnologie di cui sono in possesso avendo un mercato interno che è il secondo al mondo per popolazione, a noi ci mancano i prodotti intermedi e l’Europa chiude i suoi mercati per un altro anno e mezzo.

La stabilità del sistema produttivo europeo non può più dipendere in modo assoluto da Putin o dal suo successore, dalla Cina o da altri autocrati in giro per il mondo o dalla stessa India. Il sistema produttivo tedesco perde colpi giorno dopo giorno e chi ha la responsabilità di governo di quel Paese invece di continuare a parlare di regole virtuose a nostro avviso assolutamente indispensabili nell’Europa di domani, farebbe molto bene ad occuparsi con urgenza assoluta di mettere in sicurezza la sua manifattura delocalizzando oggi, non domani, il più possibile delle sue catene di produzione nel Mezzogiorno d’Italia. Questo significa ragionare da europei e misurarsi con un mondo percorso dai conflitti che segna la rivincita della storia con ciò che determina e gli avvertimenti che impartisce a tutti.


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