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Giorgia Meloni

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Serve che la linea non demagogica della premier esprima un modello di stabilità di governo rafforzato dalle opposizioni dentro la crisi politica europea. Se no succede che l’Italia è uno dei tre grandi azionisti della Bei con Germania e Francia, ma è scavalcata dalla Spagna azionista minore. Non abbiamo il gioco di squadra che francesi e spagnoli dimostrano di avere. Gli interlocutori con cui lottiamo sui millimetri di azione del nuovo Patto sono gli stessi della Bei e a contare sarà chi saprà fare meglio gioco di squadra.

La nostra possibilità di giocare in Europa da protagonisti le grandi partite è legata alla possibilità di avere una dialettica politica interna che dimostri di essere la risposta alla crisi globale della politica che sta investendo l’Europa. Su questo versante, che è il più strategico di tutti e sottovalutato da tutti, per un Paese come l’Italia si impone di avere una maggioranza che ha il coraggio di rivendicare le sue scelte che non possono essere quelle della demagogia e un’opposizione capace di confrontarsi alla pari su questo tavolo non demagogico. Essere italiani e europei e costruire lo Stato comune sono scelte dettate dallo spartiacque della storia che stiamo vivendo che segna una rottura totale con il passato e impedisce ambiguità di sorta su contenuti e alleanze.

Si parla giustamente molto di Europa, della sua frammentarietà decisionale e di un preoccupante andirivieni tra scelte solidali e di miope egoismo, ma per noi in Europa il problema fondamentale è prevalentemente quello interno. Il problema italiano è che Giorgia Meloni ha già fatto la sua scelta europeista ma deve costringere i suoi alleati a farla propria esplicitamente. Elly Schlein non deve correre dietro ai giochetti dei Cinque Stelle rinunciando a ricostruire il partito. Si può obiettare che la seconda parte svantaggiata rispetto alla prima perché non sa che cosa è un partito e non è la persona giusta per il Pd mentre la Meloni lo è per la sua coalizione di governo e sa bene che cosa è un partito, ma il punto è che ora il vantaggio non le basta più perché deve fare il partito del governo. Che è un’altra cosa.

Così come lo è per la stessa Schlein se il Pd vuole diventare un partito che può ambire a prendere il posto della Destra come partito di governo. La sfida comune, partendo da storie e ambiti diversi, è quella di realizzare l’egemonia culturale che non si conquista imponendo i propri, ma diventando un punto di riferimento per tutto quello che c’è. Imporre i propri significa scegliere persone di non primissimo piano o gli opportunisti e, quindi, significa perdere. La forza della vecchia Dc non era quella di imporre i suoi intellettuali, ma di costringere gli altri a considerarla un punto indispensabile di confronto. Quando ha perso questa caratteristica fondante la Dc è finita.

Giorgia Meloni e Elly Schlein sono due facce della stessa medaglia o, se volete, capi treni di locomotive che corrono su binari paralleli. A nostro avviso la Meloni ha i numeri per fare il cammino che deve fare. Perché ha un ruolo che conta oggi e una storia alle spalle che la aiuta a dare un peso a quel ruolo. La Schlein non ha nessuna storia di partito alle spalle, ma se vuole averla deve costruirla cambiando totalmente passo e approccio dimostrando di essere capace di governare oltre che di urlare.

In questo momento, però, la prima urgenza riguarda la premier e segnatamente il gioco di squadra che può fare in casa e in Europa solo se la scelta non demagogica da lei già effettuata, combinata con le intuizioni e le capacità manifestate, diventa una scelta condivisa da tutta la sua coalizione e espressione di una stabilità di governo che a sua volta diventa modello per contribuire a risolvere da protagonista la crisi politica europea. Se questo non accade, purtroppo, i risultati non arrivano. Si è persa la partita della Bei dove la ministra spagnola Calviño è stata preferita all’ex ministro dell’Economia italiano, Daniele Franco, nonostante lui avesse tutti i numeri per ambire a quel ruolo e l’Italia sia tra i grandi azionisti della banca con Francia e Germania e la Spagna invece no.

Si è persa ingiustificatamente la tolda di comando di un braccio finanziario strategico per gli investimenti che sono il motore della nostra crescita, peraltro, anche in punti nevralgici del nuovo mondo e per noi strategici come il Mediterraneo e la ricostruzione dell’Ucraina. Diciamocela tutta.

La vicenda della Bei è la cartina di tornasole di che cosa può fare una macchina di governo, come quella spagnola, molto rodata con un presidente del consiglio molto impegnato e con molti legami con gli altri Paesi che contano, e quello che invece noi non siamo stati capaci di fare a causa proprio di quella scelta politica interna incompiuta o compiuta a metà che pesa più in Europa che in casa nonostante il lavoro eccellente portato avanti dal ministro Giorgetti su questo punto di cui è giusto darne atto pubblicamente e i risultati rilevantissimi conseguiti dal ministro Fitto sul Pnrr con un dialogo serrato con la Commissione e un metodo di lavoro efficiente.

Nel risiko del potere europeo la sostanza è che l’Italia è uno dei tre grandi azionisti della Bei con Francia e Germania e non ricopre il ruolo di presidente della banca da mezzo secolo, ma il suo candidato indipendente e tecnico molto stimato viene scavalcato dalla candidata altrettanto stimata della Spagna che conta molto meno nell’azionariato della banca. Dobbiamo prendere atto che non abbiamo ancora la squadra e il gioco di squadra che la Francia, in modo irraggiungibile, e la Spagna, in misura superiore a noi, dimostrano di avere.

È grave tutto ciò anche perché, come abbiamo detto più volte, la Bei è uno strumento molto utile per moltiplicare la leva degli investimenti la cui guida finisce oggi nelle mani di un Paese concorrente nel Mediterraneo negli stessi giorni in cui stiamo lottando per preservare spazi fiscali a favore di investimenti e sostegni produttivi all’economia che sono indispensabili per fare la crescita che garantisce la sostenibilità del nostro debito pubblico e costruire quella nuova Europa di cui l’Italia prima di tutti ha bisogno. Inutile dire che gli interlocutori con cui lottiamo sui centimetri o i millimetri di azione, a partire dalla flessibilità di calcolo o meno della spesa per gli interessi sul deficit, sono gli stessi che abbiamo avuto davanti per la presidenza della Bei e che qui come lì a contare, alla fine, sarà sempre chi saprà fare meglio gioco di squadra e non sbaglierà alleati.


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