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Noi abbiamo esercitato la virtù della finanza pubblica, restituito valore alla manifattura e potere d’acquisto alle famiglie. La Francia ha accumulato un debito pubblico di oltre 200 miliardi superiore al nostro e usa la leva della finanza a debito per comprare industria fuori casa non avendone di sua. L’Inghilterra decide di uscire dalla Unione Europea, mette in crisi la sua industria finanziaria e si ritrova senza crescita con un’inflazione sopra il 4% e noi sotto l’1%. La Germania sta ancora peggio avendo dovuto rompere il cordone con Russia e Cina. L’Italia sta giocando meglio di tutti l’asso del Pnrr, ma facciamo finta di niente. Mi domando: perché?

C’è una storia economica di successo di questo Paese che è relativamente recente e convive con la politica. È iniziata prima della crisi pandemica e riguarda un fenomeno progressivo di miglioramento delle condizioni di economia che ricalca la forza del primo grande miracolo italiano, che è quello del Dopoguerra, ed è frutto di un irrobustimento competitivo delle nostre imprese esportatrici e di un aumento significativo del potere di acquisto delle famiglie.

Sono due elementi strutturali che connotano la forza sistemica di un Paese e che prendono corpo quando si è capaci di mettere in moto un processo riformistico che pone al centro l’investimento in innovazione della produzione e conduce il Paese fuori dal solco di una ottusa austerità per ricostituire un livello di consumi all’altezza delle storiche grandi economie europee.
Tutto inizia con la riforma fiscale degli incentivi alle imprese che è stato un abito cucito su misura della pecularietà dimensionale, qualitativa e ancora troppo familiare delle multinazionali tascabili italiane. Questo colpo di genio esprime un principio di organizzazione di una politica italiana che è stata in grado di guardare un po’ più in là del proprio naso e dell’interesse di questa o quella elezione intermedia. È giusto dare a Cesare quel che è di Cesare e bisogna, quindi, avere l’onestà di riconoscere che l’intuizione di industria 4.0 costruita e concordata con le imprese appartiene a Calenda, Renzi e Gentiloni.

Questo è il punto di svolta della ripartenza italiana che ha poi avuto nell’iniezione di fiducia internazionale garantita dalle scelte del governo Draghi come dal suo credito personale e nel consolidamento della traiettoria giusta imboccata dal governo Meloni, due solidi capisaldi che permettono di potere affermare oggi che l’Italia è stata trasformata da fanalino di coda in locomotiva dell’economia europea. Come tutti, proprio tutti gli indicatori macroeconomici, dalle performance delle esportazioni a quelle della nuova occupazione, dal riequilibrio territoriale in atto alla riduzione delle diseguaglianze, dallo stato di salute delle nostre banche, confermano giorno dopo giorno.

C’è un punto, però, che è stato colto molto bene dagli osservatori internazionali più avveduti, ma è fuori dal radar di quasi tutti gli osservatori interni con la sola eccezione di Marco Fortis che ne ha lasciato traccia scritta in una collezione di libri a doppia firma con Alberto Quadrio Curzio che spaziano dalla competitività al Mezzogiorno, dalle sfide vinte ma mai raccontate delle riforme, degli investimenti e dell’industria.

Il punto strategico di cui stiamo parlando è la ricostruzione economica avvenuta di una nuova Italia e quella avviata ma ancora molto da completare della nuova Europa. Parliamoci chiaro: noi lo abbiamo sostenuto in tempi non sospetti in solitudine assoluta e il testo e i grafici rielaborati da Fortis che pubblichiamo all’interno lo confermano, ma la verità che nessuno vuole dire nemmeno ora perché fa cadere il castello di frottole che tutti raccontano ogni giorno è proprio che l’economia italiana è entrata in pandemia mentre già stava superando la Germania, la Francia e il Regno Unito. Rivendichiamo con orgoglio di averlo capito prima di tutti e ci fa piacere condividere questa soddisfazione con Marco Fortis e Alberto Quadrio Curzio che nulla hanno a che fare con il pensiero economico unico di conio ragionieristico che sa parlare solo di deficit-Pil e non riesce a cogliere l’elefante del cambiamento italiano che passa davanti agli occhi e che viene oscurato giorno dopo giorno.

La verità della storia economica recente italiana, dal 2015 a oggi, è in realtà ben diversa e dopo dieci anni bisognerebbe cominciare a dirlo con forza perché la svolta italiana è partita prima del Covid e si è consolidata dopo. Mentre noi esercitavamo la virtù della finanza pubblica collezionando avanzi primari, restituivamo valore alla nostra manifattura e ricostruivamo in modo sano il potere di acquisto delle famiglie, la Francia si avviava ad accumulare un grandissimo debito pubblico di oltre 200 miliardi superiore al nostro e poteva usare solo la leva della finanza sempre a debito per comprare la nostra industria avendone sempre meno e sempre meno competitiva di sua.
L’Inghilterra decideva masochisticamente di uscire dalla Unione Europea perdendo un pezzo rilevantissimo della sua grande industria, che è quella finanziaria, e si ritrova oggi con un’inflazione sopra il 4% mentre noi siamo sotto all’1% e con una crescita che è una frazione della nostra. È il prezzo pagato alla miopia del populismo imperante in quella terra. La Germania, sotto la coltre di una Merkel sempre più spaventata e enigmatica, cominciava a pagare il costo della doppia dipendenza di materie prime del passato e del futuro dalla Russia di Putin e dalla Cina di Xi Jinping prima messa a rischio poi travolta dalla guerra in Ucraina e dalla nuova globalizzazione. Il successore della Merkel, Olaf Scholz, e le imprese tedesche saranno poi addirittura messi in ginocchio dalla nuova situazione dovendo fare i conti con una strutturalità inimmaginabile della crisi industriale del Paese.

Se recuperassimo almeno l’onestà di dire che il percorso concordato con Bruxelles, grazie al programma europeo del Next Generation Eu di cui siamo i principali beneficiari, ci sta guidando su un solco riformista che non è certo immune da qualche ritardo, ma che sta complessivamente cambiando i fondamentali competitivi del sistema Paese e della nostra economia, la performance di crescita italiana già resiliente da quattro anni in qua non potrebbe che trarne ulteriore giovamento. Lo abbiamo scritto, ci piace ripeterlo, abbiamo un asso nella manica che si chiama Pnrr, che abbiamo solo noi in Europa di queste dimensioni e che stiamo sfruttando meglio di tutti, ma vogliamo continuare a fare finta di non capirlo.
Siamo liberi di farlo, siamo liberi di farci del male da soli. Siamo liberi di seguire il modello sbagliato degli altri e ripetere gli errori inglese, francese e tedesco. Mi domando, almeno questo sarà consentito, perché dovremmo farlo e, soprattutto, che cosa ci guadagniamo? Ecco, sì, il punto è proprio questo, che cosa ci guadagniamo? La risposta è semplice: nulla di nulla. Può soddisfare solo l’ego collettivo di un Paese costitutivamente piagnone e percorso da una insulsa voglia di perdere.


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