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Sarebbe necessario che i capi di Stato e di governo scegliessero per l’Europa un “nuovo Delors”, abile tessitore di legami tra le cancellerie

LO STATO di permacrisi che caratterizza questo primo quarto di XXI secolo, unito all’eclissarsi dei principali forum di dibattito multilaterale, rendono il prossimo voto europeo decisivo ben al di là della pur importantissima composizione del nuovo emiciclo di Strasburgo. Il Parlamento europeo, a partire dalla sua prima elezione a suffragio universale diretto nel 1979, non ha fatto altro che aumentare le proprie prerogative e i propri poteri. Dunque, la scelta dei 720 parlamentari continentali ha in sé una evidente rilevanza. A questo livello di importanza che potremmo definire istituzionale (e prettamente europeo), se ne deve aggiungere un secondo, altrettanto decisivo, di natura politica e fortemente legato alla connessione tra voto del Parlamento e nuove nomine europee, a partire da quella del presidente della Commissione.

Come è noto, il Parlamento europeo è chiamato a ratificare la decisione del Consiglio europeo e poi a svolgere un ruolo di controllo molto stretto sulla scelta singoli commissari. Su questo secondo punto ad avere un peso di rilievo è anche il risultato del voto declinato in ciascun contesto nazionale. I vari capi di Stato e di governo dei 27 Paesi membri che si incontreranno alla riunione informale del 17 giugno prossimo per decidere della nuova guida della Commissione europea, lo faranno rafforzati o indeboliti a seconda del risultato del proprio partito al voto del 6-9 giugno. Per tentare di capire che Europa ci troveremo di fronte il 10 giugno dobbiamo da un lato osservare con attenzione i sondaggi elettorali relativi alla nuova probabile composizione di Strasburgo e dall’altro incrociarli con la composizione del Consiglio europeo.

Per quanto riguarda il momento elettorale, da oramai alcuni mesi i Popolari sono dati stabili, i Socialisti in leggera perdita e i Liberali in consistente calo (-22 deputati). Nonostante questo quadro, l’attuale “triade” PPE-S&D-Renew manterrebbe ancora una maggioranza piuttosto salda (48 eletti in più rispetto alla maggioranza assoluta di 361). A questo si unisce poi che tra i 27 capi di Stato e di governo, 13 sono Popolari, 4 appartengono all’area socialista, 5 ai liberali. Solo due sono membri dell’ECR di Meloni, più gli “espulsi” e/o sospesi Orban (il suo partito in passato tra i popolari) e Fico (da tempo sospeso dai socialisti). Tutto ciò considerato, la prima conclusione è che né la destra nazionalista di ECR, né tanto meno quella antieuropea e radicale di Identità e Democrazia saranno utilizzati per sostituire Socialisti o Liberali per arrivare alla scelta dei nuovi vertici europei. Altro discorso è affermare che il Primo ministro italiano possa giocare un ruolo di primo piano a partire dal Consiglio europeo informale del 17 giugno e poi in quello del 27-28 giugno, se saranno confermate le proiezioni che vedono Fratelli d’Italia in ascesa e quelle che prevedono invece socialisti spagnoli, macroniani e socialdemocratici tedeschi in difficoltà. Sanchez, Macron e Scholz in difficoltà, Meloni potenzialmente “in paradiso”.

Una volta fatto un minimo di ordine su possibili risultati e meccanismi istituzionali, occorre anche riflettere su alcuni dati politici all’orizzonte. Il quasi certo concomitante calo di Verdi, Socialisti e Liberali unito alla quasi sicura crescita dei Conservatori e Riformisti e di Identità e Democrazia al quale infine aggiungere il contestuale spostamento su posizioni piuttosto conservatrici di almeno una parte dei Popolari, sono tutti segnali di quella che appare come una doppia tendenza alla rinazionalizzazione e alla frammentazione sui principali dossier da affrontare nella prossima legislatura europea 2024-2029. Prendiamo brevemente almeno tre di questi nodi imprescindibili per l’immediato futuro europeo. Sull’onda della drammatica crisi ucraina si parla con sempre maggiore insistenza di politica europea di difesa. Le posizioni all’interno dell’Ue sul tema oscillano però tra il gollismo macroniano e l’atlantismo spinto dei Paesi del nord e dell’est, con a metà del guado la Germania dei cento miliardi di euro per rinnovare finalmente il proprio esercito. Quale sarà la linea “comune” da seguire? Strettamente legato al dossier difesa, anche se non esclusivamente, vi è quello del necessario sviluppo di una politica industriale europea. Gestita però a livello centrale, cioè a Bruxelles, o a livello nazionale (quindi re-industrializzazione nazionale)? L’impressione è che si vada verso la seconda opzione con l’esito conseguente di una nuova concorrenza all’interno dello spazio europeo, in larga parte falsata dal ritorno degli aiuti di Stato nazionali solo per i Paesi che potranno permetterseli. Il rischio concreto è quello di maggiore frammentazione interna e nessun coordinamento industriale per affrontare i grandi campioni esteri, americani, cinesi o indiani.

A proposito di Cina. Quale la politica comune nei confronti di Pechino, se a Bruxelles si progettano dazi nei confronti del gigante asiatico, in particolare su pannelli e auto elettriche, mentre Scholz a metà aprile ha organizzato una visita con ministri ed industriali di alto livello a Pechino e Macron ha, una decina di giorni fa, ricevuto Xi Jinping con tutti gli onori all’Eliseo? Si potrebbe continuare a lungo elencando altre incoerenze e frammentazioni interne ai 27, ma è forse meglio ipotizzare cosa potrebbe servire per attenuarle. Tornando ai citati appuntamenti della seconda metà di giugno, servirebbe che dopo il voto europeo emergesse come guida della nuova Commissione una leadership con alcune caratteristiche ben precise. Sarebbe necessario che i capi di Stato e di governo scegliessero per l’Europa un “nuovo Delors”. L’insistenza sull’aggettivo “nuovo” non è casuale. Il nuovo presidente dovrebbe, come accadde a Delors, avere prima di tutto il sostegno di un rinnovato asse franco-tedesco in Europa e come fece lo stesso Delors dimostrarsi abile tessitore di legami tra le principali cancellerie nazionali. Il nuovo Delors dovrebbe muoversi tra le diverse capitali d’Europa e riportare a Bruxelles le istanze più rilevanti. A queste caratteristiche, dovrebbe però accostare elementi di novità. Primo fra tutti l’agire rapido. A differenza dell’ex ministro dell’economia di Mitterrand, che si costruì gran parte del credito nel corso del suo primo mandato (tra il 1985 e il 1988) per poi dispiegarlo nel delicatissimo passaggio 1989-1992 (crollo del Muro, unificazione tedesca, unione monetaria), il “nuovo Delors” dovrebbe immediatamente poter esercitare la sua autorevolezza in tutta l’Europa, dal momento che i tempi per agire sono stretti. Dovrebbe in sostanza godere di una sorta di “assegno in bianco”. Servirebbe un grande federatore europeo già portatore di una dimensione forte di leadership sia carismatica, sia storico-tradizionale, maturata per meriti “straordinari” passati.

Il voto europeo e i Capi di Stato e di governo dovrebbero aggiungere alla doppia dimensione carismatica e storica quella legale-razionale. Con una tale legittimità potrebbe convogliare le principali istanze nazionali verso scelte univoche, salvando così il processo di integrazione europea e facendolo finalmente entrare in una nuova dimensione dopo il “lungo sonno” post-bipolare. Esiste un leader con queste caratteristiche? Spesso la soluzione è più vicina a noi di quello che si possa immaginare.


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