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Il futuro dell’Italia è legato alla sua crescita, anche i mercati guardano prima alla crescita che ai parametri di finanza pubblica, e per tutelarla e consolidarla in una prospettiva di lungo termine c’è bisogno di rimuovere il macigno degli strapoteri regionali che, di fatto, o la rallentano o la bloccano. Questi problemi giganteschi frutto di miopie di destra e sinistra di venti anni fa non si risolvono nominando i propri per la corsa alla guida delle Regioni e dei suoi bilanci assistiti, ma facendo la riforma dello Stato che ristabilisce le gerarchie, recupera una visione Paese, torna a premiare le competenze e spezza il dominio del potere delle clientele regionali che ruba la crescita agli italiani

Le entrate fiscali hanno dato dieci miliardi in più tra rottamazione e Irpef, è andata un po’ meno bene con l’Iva. I conteggi finali si faranno quando i numeri saranno tutti fermi e verificati, ma l’ordine di grandezza è questo ed è migliore delle aspettative. La tendenza discendente dell’inflazione è molto netta in Europa, ancora di più lo è in Italia, l’obiettivo del 2% che è il target ufficiale della Bce è a portata di mano e nessuno può essere così masochista, neppure tra i falchi decaduti del Nord Europa, da volere tenere i tassi alti per scendere anche sotto il 2%.

Lo scenario più probabile è quello che, se non a marzo, da aprile in poi i tassi in Europa cominceranno a scendere in modo significativo e questo darà all’Italia da aprile a fine anno un punto di minore costo di spesa per interessi che con un debito/ Pil al 140% vale su sette anni un 1,4% in meno che non è affatto poco, ma già da subito vale uno 0,3% che regala all’Italia un altro tesoretto da 10 miliardi da aprile a fine anno.

Se a gennaio si cercano mezzo milione di nuovi occupati e non si trovano, se il potere di acquisto delle famiglie sale, se aumenta il loro reddito disponibile, se i consumi aumentano, se rimaniamo con la Germania in forte contrazione l’unico Paese europeo ad aver un surplus commerciale con l’estero che Francia e Spagna possono solo sognare vista la loro posizione finanziaria netta negativa, è semplicemente giusto non continuare a martellarsi in testa con dosi di depressione che sono giustificate dalle incognite geopolitiche legate a due guerre ormai globali, ma non hanno al momento fondamento oggettivo nella realtà economica italiana.

Perché si ignorano le buone performance delle nostre imprese sui mercati globali benché in contrazione e la grande occasione degli investimenti legati all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) che è stato rimesso in carreggiata e può produrre i suoi effetti proprio quest’anno sia come investimenti pubblici sia come investimenti privati fiscalmente incentivati. Perché si ignora che le famiglie hanno retto, pagandone ovviamente uno scotto, l’urto del ciclone inflazione e la prova viene dai consumi che continuano a crescere in controtendenza rispetto a molti dei mercati interni dei Paesi europei e dal recupero di reddito e di potere d’acquisto affatto scontati. Certo, su tutto questo, si abbatte il conto crescente del superbonus che pesa sul debito pubblico italiano dai 20 miliardi in su per tre anni, ma questo frutto avvelenato della stagione venezuelana italiana che ha regalato i soldi dei poveri ai ricchi non cresce più perché l’albero della favola di Pinocchio che lo produceva è stato reciso alle radici.

Perché ho voluto fare questo quadro d’insieme più in chiaro che in scuro in questa domenica di inizio anno attraversata dalle code della solita polemica italiana dopo la conferenza stampa della premier Meloni di inizio invece che di fine anno? Perché è bene che la Presidente del Consiglio italiano si renda conto che non è vero che è tutto contro, ma che ha anzi una strepitosa occasione per fare quello che nessuno ha fino a oggi fatto revisionando la spesa pubblica in modo strutturale entrando nel cuore del problema italiano che è la duplicazione tra amministrazioni nazionali e regionali che esprimono le due facce dello stesso, grande problema italiano.

La prima è che entrambe le amministrazioni sono tendenzialmente inefficaci e, quindi, cumulate e intrecciate tra di loro rallentano fino a bloccare la spesa produttiva. La seconda faccia è che le amministrazioni regionali sono guidate da presidenti eletti che si sentono venti capi di governo che usano l’investitura popolare come munizioni da guerra nello scontro con le amministrazioni nazionali facendo perdere al Paese visione e priorità strategiche, allargando i divari interni e contribuendo in misura significativa ad allargare le diseguaglianze. Lo scontro politico che si è acceso sulle candidature nella coalizione di maggioranza per le Presidenze delle Regioni e gli appetiti e le divisioni che si riscontrano sul fronte opposto delle opposizioni dimostrano che su questo terreno si gioca la partita del potere effettivo in Italia.

Perché nei bilanci delle Regioni e nei poteri dei loro capi si custodiscono i famelici interessi privati nella sanità assistita e la grande questione della debolezza della sanità pubblica e della medicina del territorio. Siamo dentro la grande sofferenza italiana e facciamo i conti con la sua grande questione istituzionale che è quella di un Paese di sessanta milioni di abitanti con una popolazione fortemente decrescente che ha diviso il suo potere decisionale in venti Regioni guidate da politici che si fanno abusivamente chiamare governatori e si muovono come capi di governo mentre il loro mandato originario era quello di capi di enti di programmazione regionale.

Fa bene la Meloni a occuparsi personalmente delle candidature in Sardegna come in Basilicata e ovunque, ma farebbe ancora meglio se cogliesse questa finestra di opportunità data dai tassi calanti e dalle buone entrate per utilizzare i maggiori spazi fiscali allo scopo di sostenere finanziariamente la riforma delle riforme che è quella del bilancio dello Stato ricostruendo la gerarchia dei poteri e la funzionalità della macchina pubblica degli investimenti nazionali e territoriali.

Il futuro dell’Italia è legato alla sua crescita, anche i mercati guardano prima alla crescita che ai parametri di finanza pubblica, e per tutelarla e consolidarla in una prospettiva di lungo termine c’è bisogno di rimuovere il macigno degli strapoteri regionali che, di fatto, o la rallentano o la bloccano. Questi problemi giganteschi frutto di miopie di destra e sinistra di venti anni fa non si risolvono nominando i propri ma facendo la riforma dello Stato che ristabilisce le gerarchie, recupera una visione di insieme, e torna a premiare le competenze partendo da quelle sopravvissute e investendo al massimo su quelle da formare delle nuove generazioni.


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