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L’interminabile Consiglio europeo nell’estate del Covid fornisce innanzitutto due lezioni di natura politico-istituzionale. La prima è intuitiva ma rimane di grande interesse: Londra non è più presente al tavolo dei 27 ma assumere decisioni resta ugualmente complicatissimo. Chi imputava al Regno Unito ogni tipo di responsabilità di Paese frenatore, deve almeno in parte rivedere questi giudizi. O perlomeno è anche possibile affermare che non saremmo qui a discutere di recovery fund garantito dalla Commissione, con Londra al tavolo. Ma occorre aggiungere che il problema decisionale è ben più profondo e strutturale e interroga la natura istituzionale dell’Ue.

MERKEL E MACRON

Il secondo elemento riguarda le logiche di funzionamento dell’Unione. E’ indubbio che l’emergenza sanitaria abbia accentuato la dimensione intergovernativa. Lo stallo a fine aprile è stato rotto da Merkel e Next Generation Eu è giunto solo dopo il richiamo della coppia Merkel-Macron a Meseberg, il 18 maggio scorso. E proprio durante questo teso e snervante negoziato di mezza estate, von der Leyen e Michel si sono mossi come onesti mediatori, quasi come un arbitro sul ring.
Ad un angolo il gigante Merkel, con Macron quale fidato scudiero e rappresentante ombra dei Paesi del sud, a loro volta divisi tra realisti (Spagna e Portogallo) ed idealisti (Italia, al limite dell’utopico e a tratti del patetico). All’angolo opposto, l’Olanda del premier Rutte, capofila dei cosiddetti “frugali” e per certi versi anche rappresentante del gruppo di Visegrad. Con questi ultimi Paesi, in particolare Ungheria e Polonia, più che altro interessati ad evitare che il discorso scivolasse sui temi dello stato di diritto o di eventuali riduzioni dei fondi strutturali.
Se questo è il quadro di contorno, nello specifico della mediazione tra i molti punti toccati, quattro sono quelli più delicati, ma di questi solo due sono davvero rilevanti.

GRANTS E LOANS

A Bruxelles si è discusso molto della possibile riduzione della quota dei grants e del possibile aumento di quello dei loans. A ballare sono 50 miliardi. In realtà, in relazione al recovery fund, la vera questione cruciale è quella delle condizionalità, connesse alla proposta di “freno”, cioè la possibilità per uno o più Paesi di sollecitare rapidamente (entro tre giorni) un dibattito a livello di Capi di stato e di governo o di Ecofin, qualora il piano presentato da uno dei Paesi per accedere ai fondi sia considerato non sufficientemente chiaro o non in linea con le scelte degli altri Paesi membri. La questione è tutt’altro che tecnica. È politica nella sostanza e anche nella forma, cioè un conto è se questo veto “soft” si trova nelle mani dei singoli Stati, altro se può essere gestito dalla Commissione o co-gestito addirittura dal Parlamento europeo.

L’altro punto dirimente riguarda il bilancio pluriennale 2021-2027. Sarà questa la garanzia che la Commissione porrà quando andrà sui mercati a raccogliere i fondi per Next generation Eu. Ma anche su questo punto, più dei 50 miliardi di euro di eventuale riduzione, a pesare è la cosiddetta questione dei rebates, cioè dei rimborsi di thatcheriana memoria, che non spettano soltanto all’Olanda ma anche a Svezia, Danimarca, Austria e, da non dimenticare, alla Germania.

L’EUROMARATONA

In questo quadro come collocare il nostro Paese e l’operato di Conte? Nella maratona di Bruxelles non si può dire che il Presidente del Consiglio abbia peccato per tenacia o per scarso volontarismo. Certo ha fatto quasi tenerezza annunciando, dopo trentasei ore di vertice, che si sarebbe atteso un negoziato meno duro. Ma spesso, con le spalle al muro, si dice la verità.

E la verità parla di un Conte salito a Bruxelles con una convinzione o almeno deciso a giocare questa carta: il Covid-19 ha stravolto a tal punto il quadro europeo e quello globale che Roma potrà contare su una sorta di “reset” totale. La realtà tenuta fuori dalla finestra è prontamente rientrata dalla porta. Quando si partecipa ad un negoziato il passato conta. L’Italia è Paese fondatore, nel gruppo di testa della moneta unica e terza economia dell’area euro. Ma il passato va assunto nella sua totalità. E cioè con il fardello del debito pubblico e le scellerate scelte di politica-economica del governo giallo-verde, vedi quota cento e reddito di cittadinanza.

Sono i freddi numeri a legare quelle scelte all’attuale questione delle condizionalità dei fondi europei. L’Italia è l’emblema della Grande Divergenza, o meglio, è la Grande Divergenza. I numeri sono impietosi: nessuna previsione nell’Ue a 27 parla di un’economia, il prossimo anno, più disastrata di quella italiana. Ci si attende un -8% rispetto al livello pre-crisi 2008 (la Germania si attende un +13%, anche la Spagna è in territorio positivo con un +3%). Di fronte ad un quadro del genere è illegittimo che i partner europei vigilino affinché i 150 o 170 miliardi previsti per il nostro Paese siano utilizzati per tentare di colmare questa Grande Divergenza?

Questo è, nella sua essenzialità, ciò che emerge da Bruxelles. I numeri giungeranno al termine del negoziato. Sulle linee politiche di fondo, c’è poco da discutere, a meno di non diffondersi in sterile retorica, utile per ottenere qualche manciata di voti alle prossime elezioni regionali. Ma poco cambierà, per una “divergenza” che ben presto rischierà di essere chiamata con il suo termine preciso, cioè “declassamento”.


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