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Recep Tayyip Erdogan

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Quello che è stato in maniera un po’ maldestra etichettato come il “Sofa gate”, in realtà è l’ennesima tessera del complicato risiko nei rapporti tra Cee/Ue e Turchia. Un risiko che, occorre ricordarlo, ha un altro protagonista principale ovvero Washington, considerata la determinante partecipazione di Ankara all’Alleanza Atlantica. Non è possibile in questa sede fare la storia dei rapporti tra processo di integrazione europea e Turchia contemporanea. Due o tre passaggi chiave occorre però ricordarli, soprattutto per non legare l’attuale congiuntura di crisi ai dogmi del presentismo imperante.

IL VIZIO D’ORIGINE

Con una battuta si potrebbe affermare che il rapporto soffre di un vizio di origine. Ankara e Atene partono insieme nel settembre del 1959, ma la Grecia ottiene due anni dopo l’accordo di associazione (e nel 1981 l’adesione), mentre per la Turchia serviranno altri due anni, solo per questo primo step.

Accanto a questa frustrazione originaria e naturalmente tralasciando, ma non dimenticando, la querelle cipriota e i ripetuti colpi di stato militari in terra turca (1960, 1971 e 1980), si giunge al decennio degli equivoci. Tra il 1987 e il 1997, si sfogano tutte le frustrazioni turche. Si passa infatti dalla domanda ufficiale di adesione all’allora Cee dell’aprile 1987 all’ufficializzazione del “no” allo statuto di candidato da parte del Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997. Vi sarebbe molto da dire sulla connessione tra esigenze del grande allargamento ad est e tema turco, ma è il terzo passaggio che porta la schizofrenia verso le vette più alte.

Due anni dopo la porta sbattuta in faccia ad Ankara (con sullo sfondo il quarto colpo di stato militare, il cosiddetto golpe postmoderno), ecco giungere la candidatura ufficiale sancita dal Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999. Le Monde può titolare: “L’Ue non è un club cristiano e diventerà una potenza asiatica”.

È lecito domandarsi cosa sia cambiato in meno di due anni. Nell’ottobre del 2004 arriva poi il via libera ai negoziati, che si aprono ufficialmente nell’ottobre del 2005. Da un lato possiamo dire che è nata una stella, dal nome Erdogan, ufficialmente Primo ministro dal marzo 2003 ma già deus ex machina dell’AKP da due anni e vero e proprio garante della modernizzazione ed europeizzazione della Turchia, in via di liberazione dallo strapotere della gerarchia militare kemalista.

Dall’altro lato però il no referendario francese al Trattato costituzionale europeo del maggio 2005 e un crescente sentimento anti-turco in ambienti soprattutto franco-tedeschi, ben presto vanno di pari passo con la svolta interna e in politica estera della leadership di Erdogan.

Dalla Turchia ponte tra Occidente e Oriente si passa all’idea di una Turchia autonoma e addirittura pronta a concorrere per la leadership dell’Islam sunnita. Dalla Turchia esempio di connubio tra islam e democrazia, si passa a Gezi Park.

La schizofrenia nel rapporto Europa/Turchia non è ancora allo zenit, questo arriverà nel 2016. Da una parte l’Ue, rappresentata da Angela Merkel, consegna ad Erdogan un assegno in bianco nella gestione dei flussi migratori del cosiddetto corridoio balcanico.

Dall’altro lo stesso Erdogan gestisce il golpe di luglio (presunto o reale?) come soluzione finale nei confronti dei principali oppositori, nello specifico i sostenitori di una Turchia laica e occidentalizzante e accentua i suoi toni anti-europei e anti-occidentali.

IL PICCO DEL 2020

Se questo è il quadro di fondo, negli ultimi sei mesi sono da registrare tre evoluzioni importanti. Il livello di tensione tra Europa e Turchia ha raggiunto nell’ottobre 2020 un picco molto rischioso nel Mediterraneo orientale, nello specifico tra Grecia, Cipro ed Turchia, con il presidente Macron pronto a cavalcare la carta geopolitica almeno quanto quella geostrategica, in relazione al necessario ripensamento della collocazione turca nella Nato.

Il secondo dato è stato l’uscita di scena di Donald Trump e l’arrivo alla Casa Bianca di una nuova squadra presidenziale convinta della necessità di ricreare una qualche forma di blocco occidentale. E infine occorre ricordare le sempre più accentuate difficoltà economico-finanziarie di una Turchia di Erdogan che ha smarrito la via della crescita e di conseguenza quell’immagine di via turca alla modernizzazione così fondamentale per la sua legittimazione (ben più dei proclami filo-islam).

Quando Charles Michel e Ursula von der Leyen sono atterrati ad Ankara, nel loro bagaglio portano le conclusioni del Consiglio europeo del 25 marzo scorso, il cui paragrafo più corposo è stato dedicato proprio allo “scongelamento” dei rapporti tra Ue e Turchia. Se si eccettua il paragrafo 16, un imprescindibile quanto manicheo riferimento al rapporto tra Ankara e i diritti umani, per il resto solo ramoscelli di ulivo.

Per quale ragione? Le richieste pressanti giunte da Biden affinché l’Ue svolga un lavoro di stabilizzazione e di conseguenza di reintegro completo di Ankara nel blocco occidentale. Ma accanto a queste, quelle provenienti da Berlino: non irritare il sultano sui migranti, in epoca di voto legislativo in Germania.

Presidente della Commissione e presidente del Consiglio europeo sono dunque giunti con l’obiettivo di sottolineare i gesti concilianti di Erdogan nel Mediterraneo orientale (e nel rapporto con Atene) e di aiutare un leader in oggettiva crisi. La “scortesia” nel cerimoniale è da collocarsi all’interno di questo quadro. È uno “schiaffo” facilmente interpretabile. Ankara riconosce la figura di Michel in quanto garante dei governi dei vari Paesi membri e non quella di von der Leyen, simbolo del potere sovranazionale.

E soprattutto Erdogan sa di poter provocare, forte del suo potere di ricatto da esercitare brandendo l’arma dei migranti fermi nel suo territorio, in condizioni disumane e a spese dell’Ue.

In un quadro del genere il potere negoziale dell’Ue pare ridursi al lumicino. In realtà per andare un minimo più a fondo occorre forse ripartire da Mario Draghi, soffermandosi non tanto sull’epiteto di “dittatore” per definire Erdogan, quanto sul realismo del suo discorso. Cosa dice Draghi a proposito di Erdogan? “Se necessario, si può anche scendere a patto con un dittatore”. Il presidente del Consiglio ha però aggiunto: “serve trovare il giusto equilibrio”.

PASSAGGIO NON CHIARO

È questo il punto chiave: la coppia von der Leyen-Michel, al di là del protocollo, delle sedie e del divano, è parsa non aver chiaro questo passaggio. L’Europa non potrà permettersi una nuova crisi migratoria, ma Erdogan è quasi al limite quanto a peggioramento del quadro economico. Da una parte flussi migratori potenzialmente incontrollati, dall’altro bancarotta quasi certa per Ankara.

Se si accetta il gioco del realismo, occorre praticarlo sino in fondo. Nello specifico questo significa avere nervi saldi per poter accettare il rischio calcolato di una nuova emergenza umanitaria, mettendo però in riga una volta e per tutte l’autocrate di Ankara.

Se si vuole evitare che il cosiddetto “Sofa gate” resti impresso nelle opinioni pubbliche europee come la solita immagine dell’Europa forte con i deboli, ma debolissima con i forti (per la gioia del terzetto Salvini/Le Pen/Orban), occorre chiedere ai vertici delle istituzioni europee e anche a qualche leader di peso nazionale, a partire proprio da Draghi, di chiarire con i fatti in cosa consista “il giusto equilibrio realista” da utilizzare con l’autocrate turco.

Si potrebbe cominciare da qua, per scardinare lo schizofrenico rapporto tra Vecchio Continente e Turchia e mostrarsi, per una volta, un po’ più forti di fronte a chi è capace di celare le proprie debolezze dietro gesti arroganti e strafottenti.


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