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Miliziani talebani sugli altipiani afghani

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Su un vecchio passaporto ho ancora il visto dell’Emirato dell’Afghanistan fondato dai talebani. Per come stanno andando le cose – Kabul è quasi sotto assedio – ho l’impressione che dovrò rispolverarlo. L’Emirato dei talebani, quello dove si mozzavano le teste, è già risorto.

Dopo il ritiro delle truppe americane e straniere dal Paese è sempre più concreto il rischio di un caos inarrestabile. I talebani stanno avanzando quasi ovunque, hanno già recuperato ampie porzioni di territorio ed è questione di mesi, se non settimane, prima che conquistino anche la capitale Kabul. Le fragili strutture di sicurezza afghane non sembrano in grado di reggere l’impatto dell’offensiva. L’esercito di Kabul, costato miliardi di dollari americani e di aiuti occidentali ( molti anche nostri), si sta squagliando e non pare in grado di resistere di fronte a un’avanzata che, venuto meno il sostegno delle truppe straniere, appare senza freni e opposizione alcuna. Un’ulteriore prova si è avuta nelle ultime ore: oltre un migliaio di soldati afghani, costretti a confrontarsi con i guerriglieri islamisti, hanno preferito fuggire nel vicino Tajikistan.

I talebani si sentono ormai padroni della situazione: è la prova lampante dell’enorme fallimento occidentale. Hanno anche minacciato ritorsioni nel caso in cui soldati stranieri rimanessero nel Paese dopo il prossimo settembre, mese in cui è previsto il completamento del ritiro delle truppe della Nato.

“Se le forze straniere saranno lasciate nel Paese, violando l’accordo di Doha, sarà la nostra leadership a decidere come procedere”, ha avvertito il portavoce Suhail Shaheen in una intervista alla Bbc, descrivendo l’attuale governo afghano come “moribondo”. Per Shaheen, inoltre, l’Afghanistan è un “emirato islamico”: la conferma, dunque, che il gruppo prevede di dare una base teocratica al governo e che si guarderà bene dall’accettare la richiesta di indire elezioni. Le minacce di ritorsioni nei confronti dei militari stranieri che resteranno nel Paese è stata l’immediata risposta dei talebani alle voci secondo le quali un migliaio di soldati statunitensi potrebbero rimanere nel Paese, insieme ai turchi, per presidiare le ambasciate e l’aeroporto di Kabul.

Ma gli stessi militari americani sono disorientati e, almeno in apparenza, privi di ogni strategia. “Mi piacerebbe non dover voltare le spalle al popolo afghano, aveva detto domenica il generale Austin Scott Miller, comandante della coalizione Nato in Afghanistan. Pochi giorni fa l’alto ufficiale americano aveva messo in guardia dal rischio di lasciare il Paese ai talebani che stanno rapidamente riguadagnando terreno. L’offensiva dei talebani negli ultimi due mesi è stata imponente: hanno riconquistato decine di distretti in varie zone del Paese, mai così tanti in uno spazio così limitato di tempo. Nelle ultime ore il gruppo fondamentalista islamico ha conquistato anche il distretto chiave di Panjwai, nella sua ex roccaforte di Kandahar, la vera capitale dell’Emirato afghano dove risiedeva anche il Mullah Omar.

I talebani invece avevano preparato da tempo i loro piani di guerra. L’offensiva per riconquistare territori nelle aree rurali del Paese è in corso dai primi di maggio, quando gli Stati Uniti hanno avviato il loro ritiro definitivo, il cui completamento è atteso per fine agosto. La caduta di Panjwai arriva due giorni dopo che le forze Usa e Nato hanno lasciato la base aerea di Bagram, vicino Kabul, da dove hanno guidato per due decenni le operazioni contro i talebani e i loro alleati di al-Qaeda. Nelle ultime settimane, i combattimenti si sono intensificati in diverse province: i talebani hanno annunciato di avere il controllo di oltre 100 dei quasi 400 distretti del Paese.

Le autorità nazionali e l’ufficio del presidente Ashraf Ghani, un passato da economista e antropologo, hanno contestato la cifra ma hanno ammesso di essersi ritirati da diverse zone. E con la partenza delle forze straniere da Bagram, la base aerea da cui gli Usa fornivano vitale sostegno all’esercito afghano, ha alimentato i timori che i talebani possano intensificare ulteriormente la loro offensiva anche su Kabul. Il presidente americano Biden ha confermato di voler completare il ritiro entro l’11 settembre, anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, ma probabilmente gli Usa vogliono ulteriormente accelerare i tempi. E adesso si pone l’interrogativo di chi possa prenderne il posto, anche se la Russia ha smentito che stia considerando l’opzione di inviare truppe.

Nell’ultima settimana è diventata più concreta la possibilità che la Turchia si faccia carico della sicurezza dell’aeroporto di Kabul: una missione complicata e allo stesso tempo fondamentale per la stabilità dell’Afghanistan, tenendo conto che l’aeroporto costituisce un punto strategico da sempre nel mirino dei talebani, snodo fondamentale per missioni umanitarie, convogli diplomatici e visite ufficiali da parte del traballante governo afgano. La perdita dell’aeroporto segnerebbe la fine del governo di Kabul.

Per evitare un fallimento completo gli americani probabilmente ricorreranno a Erdogan, l’unico leader e membro della Nato che ai tempi negoziò direttamente con l’Isis e che ha utilizzato i combattenti jihadisti in tutte le sue operazioni militari recenti, dalla guerra in Siria, all’occupazione della Tripolitania in Libia, all’offensiva contro gli armeni, insieme agli azeri nel Nagorno-Karabakh. Il più radicale ed estremista esponente della Nato adesso torna di nuovo utile: al di là della retorica, in realtà si continua a legittimarlo pienamente. Così è stato raggiunto un accordo verbale tra Biden ed Erdogan durante l’ultimo vertice dell’Alleanza atlantica e pochi giorni più tardi, in una visita ad Ankara una delegazione americana ha fatto pressioni perché la Turchia si faccia carico da sola della sicurezza dell’aereoporto di Kabul continuando una missione iniziata nel 2013, ma al fianco degli eserciti di Usa, Francia e Ungheria.

Il punto critico è che il ritiro occidentale ha accelerato la demoralizzazione delle forze afghane, anche perché senza il loro appoggio aereo diventa più difficile rifornire e sostenere gli avamposti più remoti. E così in alcune aeree è cominciata la grande fuga dei soldati afghani. La fuga è stata scatenata dagli scontri in corso nella provincia del Badakhstan. Le autorità tagike hanno spiegato che i 1.037 soldati sono riparati oltre confine per “salvarsi la vita” mentre i combattimenti hanno raggiunto la periferia di Faizabad, la capitale del distretto, una città di 2,8 milioni di persone.

Alla base militare di Bagram – già centro dell’occupazione sovietica conclusa nel 1989 – stazionavano 100mila soldati ma adesso nel cuore pulsante dell’invasione Usa non resta nulla, neppure l’acqua e luce per la prigione. Gli americani l’hanno abbandonata di notte, così all’improvviso che tanta gente è entrata nella base rubando quel che poteva prima che arrivassero le forze afghane. I russi quando si ritirarono lo fecero via terra, di giorno, sotto gli occhi della popolazione e dei reporter di tutto il mondo. Degli americani di Bagram gli afghani hanno sentito soltanto gli aerei che decollavano.


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