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Ursula Von Der Leyen

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Concludendo il suo intervento alla conferenza stampa finale del vertice straordinario dell’Unione europea svoltosi a Versailles, Emmanuel Macron (presidente di turno dell’Ue), ha insistito sul carattere evocativo del luogo. Un secolo fa a Versailles, al termine della Grande guerra, si gettavano le basi per il tragico secondo conflitto mondiale, che avrebbe chiuso il trentennio di “guerra civile europea”.

Oggi, con il funesto ritorno della guerra in Europa, Versailles, nelle parole di Macron, si erge a simbolo di un’Europa unita, rapida e responsabile nella sua risposta all’aggressione russa all’Ucraina. Troppo ottimistica l’immagine di un presidente di turno che è contemporaneamente impegnato nell’ultimo mese di campagna elettorale presidenziale? Su cosa hanno discusso e si sono divisi i 27 a Versailles? Occorre essere lucidi e privilegiare il realismo piuttosto che insensati voli pindarici.

È corretto sottolineare che, come sostenuto da Jean Monnet, il processo di integrazione europea matura e avanza se sottoposto alle tensioni e alle crisi. Allo stesso modo non bisogna nascondere che troppo spesso, Covid e guerra in Ucraina confermano, il progetto europeo si fa cogliere di sorpresa dalle crisi. Equilibrio significa però prendere atto di quanto sia sterile passare dalla logica “dell’Europa non può nulla” a quella specularmente insensata “dell’Europa può tutto”. Ebbene il successo principale del vertice di Versailles risiede proprio nell’averci mostrato quali contributi rilevanti e soprattutto concreti possano provenire dall’Europa comunitaria, sia nell’immediato, sia nel medio periodo.

Il primo riguarda la risposta economica al conflitto. È corretto affermare che le sanzioni alla Russia sono state rapide ed efficaci. Al momento è impossibile per i Paesi europei andare nella direzione di una ulteriore recrudescenza delle stesse, giungendo sino al blocco delle importazioni di idrocarburi provenienti dalla Russia. Al contrario, sensata e fattibile sembra la strategia messa nero su bianco dall’Ue a Versailles. Nei prossimi quindici giorni la Commissione dovrà cercare di armonizzare la risposta europea alla crescita dei prezzi energetici. Entro i prossimi due mesi sempre la Commissione dovrà presentare una bozza di piano per l’uscita dalla dipendenza dalla Russia entro il 2027 rispetto a tutte le fonti energetiche (in particolare gas e idrocarburi). Infine, considerando l’impatto sulla filiera cerealicola, ma non solo, la Commissione avrà sempre due mesi di tempo per porre un argine alla destabilizzazione alimentare che in meno di un anno potrebbe travolgere il Continente e rapidamente allargarsi a quello africano.

Il secondo punto riguarda la politica di difesa. In questi giorni abbiamo sentito ripetere e anche direttamente sostenuto che Putin ha fatto rinascere il desiderio di andare oltre l’Ue “potenza civile”, per spingerla a ripartire laddove ad inizio anni Cinquanta tutto sfumò, cioè nell’ambito della difesa. Ebbene da Versailles giunge un’indicazione importante, almeno su una delle due urgenze riguardanti una futura autonomia bellica dell’Europa. Ancora una volta entro il consiglio straordinario di maggio la Commissione dovrà proporre un progetto di industria europea della difesa. Sarebbe insensato pensare di acquistare armamenti all’esterno, se ci si vuole davvero progressivamente dotare di un’autonomia strategica. La vera sfida è quella di andare verso filiere europee di produzione in ambito bellico e per fare questo condizione naturalmente necessaria è quella di far aumentare a tutti i Paesi membri la quota di budget dedicata alla difesa, con il 2% (citato di recente in maniera del tutto rivoluzionaria dal cancelliere tedesco Scholz) come traguardo imprescindibile.

Ma proprio tale percentuale ci porta all’altra faccia della medaglia sul fronte bellico e cioè l’apertura di una riflessione per giungere a cruciali decisioni sul futuro della Nato. Ha senso e soprattutto è sostenibile, considerata la sempre più grave congiuntura economica, procedere sul doppio binario Ue e Nato? Non sarebbe tempo di affrontare con coraggio questo dualismo (oggi solo teorico ma in prospettiva reale)? A maggior ragione se si guarda un’alleanza atlantica che al suo interno vive la destabilizzante presenza della Turchia di Erdogan, non a caso fattore di ambiguità politica e militare anche nell’attuale crisi ucraina.

Vi sono almeno altri due ambiti nei quali l’Ue può fornire un contributo chiaro. Il primo di questi è la prosecuzione sulla linea del recovery fund nato per contrastare la crisi economica connessa a quella pandemica. Il tema è delicato, a Versailles non sono mancati i mugugni (tedeschi e olandesi). Ma l’ipotesi resta sul terreno e questo è già un importante esito. Non solo adattare la politica monetaria a quelli che purtroppo sono tornati ad essere tempi non di normalità. Ma accompagnarvi una ulteriore accelerazione sul fronte della mutualizzazione del debito. Si tratterebbe di arrivare al mai citato ma sempre più necessario traguardo degli eurobonds per sostenere quelle economie europee che in poche settimane stanno passando dallo status di economie del rilancio a quello di economie di guerra. L’emissione di “Ukrainian bonds” evocherebbe i “Liberty bonds” che nel 1917 finanziarono il riarmo e l’ingresso statunitensi nella Grande guerra.

L’altro ambito sul quale l’Ue potrebbe e si spera farà qualcosa di importante, ma qui dalle conclusioni di Versailles non sono giunte grandi novità, è quello della risposta all’imponente crisi migratoria che gli Stati membri dovranno affrontare. È corretto ricordare che la Commissione ha già operato tempestivamente per offrire agli ucraini in fuga dalla guerra la protezione temporanea saltando tutto il complicato iter burocratico solitamente riservato ai rifugiati. Sarebbe però opportuno che la congiuntura diventasse l’occasione per rivedere a fondo la gestione dei flussi migratori e la complessiva architettura europea in materia.

Insomma, fare bene e possibilmente fare presto ciò che realisticamente l’Unione può fare. È questo il messaggio che giunge da Versailles e in questo senso ha ragione Macron nel sottolineare che la “sovranità europea” sta assumendo contorni reali. Vi è forse un ultimo passo, questa volta tutto politico-diplomatico, che dovrebbe giungere dal continente europeo. Von der Leyen e Michel come vertici istituzionali dell’Ue e il terzetto Draghi-Macron-Scholz come rappresentanti dei tre membri fondatori, dovrebbero accentuare la loro pressione su Biden affinché il negoziato sull’Ucraina si elevi al solo rango che possa oggi condurre ad una soluzione. Al di là degli incontri in Bielorussia, a quelli in Turchia, ai tentativi israeliani o alle sirene cinesi, l’impressione è che solo un canale di comunicazione Washington-Mosca possa condurre ad una prima ed indispensabile sistematizzazione del conflitto.

Al netto dei richiami alla tradizione zarista, alla storia di Pietro il Grande e al sostegno del patriarca ortodosso, Vladimir Putin appare di una razionalità assoluta nella sua folle aggressione: nello schema mentale dell’ex ufficiale del KGB di stanza in Germania orientale tutto crolla con la fine della Guerra fredda e con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, non a caso da lui definita la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. Se vi è un ulteriore ruolo fondamentale per l’Europa, diventa quello di ricordare a Washington che gli errori commessi nel post ’89-’91 sono stati non uno ma due: accanto alla fine della storia, aver accreditato anche il pivot to Asia. Putin non solo ha rinsaldato l’occidente euro-atlantico, ma ne ha evidenziato tutta la sua importanza. Gli Usa e Biden se ne sono fortunatamente resi conto e il sostegno economico e bellico alla resistenza ucraina lo sta dimostrando sul campo. Serve anche lo sforzo diplomatico. Tocca agli europei spingere Washington a percorrere quest’ultimo decisivo passo.


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