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Xi-Jinping

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Imperversa con tutta la sua crudezza la guerra in Ucraina ma i giochi sul futuro si fanno in Asia. Non si tratta di un fatto nuovo: l’aggressione di Putin aveva però creato l’illusione all’Europa di ritrovare una qualche forma di centralità. Il rinnovato (e inaspettato) vigore della Nato, nonché l’iniziale compattezza manifestata dai Paesi europei, aveva infatti lasciato presagire un rinnovato ruolo della Ue: non solo nell’ambito del Patto atlantico ma anche come ago della bilancia tra Cina e Usa.

Nella realtà, il quadro è mutato piuttosto rapidamente. L’Unione europea ha perso momentum, a ulteriore conferma dell’attuale fragilità della sua architettura, e questo, se possibile, ha contribuito ad attribuire un ulteriore valore simbolico al viaggio in Asia di questa settimana del presidente Biden. Possiamo interpretarlo, a tutti gli effetti, come la rappresentazione plastica dello spostamento definitivo di attenzione dall’Atlantico al Pacifico.

EUROPA MENO CENTRALE

Quali le ragioni di questa prospettiva che porta a rendere meno centrale il Vecchio Continente? Ne individuo almeno tre.

1) Vi è in primis un tema di natura geopolitica: il vero confronto per la leadership globale si gioca, almeno nei prossimi decenni, con la Cina, che è ormai una super potenza sia di natura economica che tecnologica e, in quanto, tale ha iniziato a giocare una partita di sfere di influenza in altri Paesi, ovviamente, in primis, asiatici. Vi sono, in secondo luogo, due motivazioni di natura economica che non si possono trascurare.

2) Il fatto che in Asia vivano oltre quattro miliardi di individui (giovani) che esprimono una domanda in tendenziale crescita (giova ricordare che in Europa insistono poco più di 700 milioni di persone, che vantano un’età media nettamente superiore).

3) L’enorme fabbisogno di infrastrutture che va via via manifestandosi in relazione ai processi di crescita economica che un numero sempre maggiore di Paesi di quel Continente sta affrontando.

Non meno rilevante, infine, è la presenza in Asia di larga parte di imprese che operano in settori industriali critici, quale quello dei semiconduttori, per la trasformazione digitale in atto: un singolo paese, Taiwan, realizza oggi oltre il 70% dei micro-chip su scala mondiale.

In virtù di queste motivazioni, il presidente Biden, con il suo viaggio di questi giorni, riattiva nei fatti e rafforza il programma “Pivot to Asia” concepito da Obama e inopinatamente trascurato da Trump, il cui primo atto del suo mandato fu l’uscita dalla Trans Pacific Partnership, che vedeva nel 2016 aderire numerosi Paesi asiatici, esclusa la Cina.

LE MOSSE DI BIDEN

Le priorità in discussione nel tour del presidente americano sono diretta conseguenza della rilevanza del continente asiatico e sono riconducibili a obiettivi di natura geo-politica ed economica. Sul primo versante, collochiamo l’incontro per l’ulteriore rafforzamento del Quad (alleanza di Usa, Giappone, India e Australia finalizzata al rafforzamento dei legami diplomatici e militari) e l’attenzione più volte dedicata dal presidente Biden alla sicurezza interna e protezione di Taiwan da aggressioni.

Sul fronte economico vi è invece l’annuncio della costituzione dell’Indo-Pacific Economic Framework (Ipef), un ambizioso piano d’investimenti e rafforzamento dei rapporti commerciali (tra tredici Paesi asiatici), che punta ad aumentare la presenza Usa nell’area e a contrastare l’influenza cinese.

Sono, queste, priorità chiare e condivisibili se lette nella prospettiva di un Patto Atlantico, che intende affermare su scala sempre più ampia il proprio sistema di valori (democrazia, tutela dei diritti umani), e degli Stati Uniti, che, in quanto superpotenza egemone a partire dalla Seconda guerra mondiale, intendono contrastare l’ascesa di una sempre più aggressiva e proattiva Cina.

I RISCHI SU SCALA GLOBALE

Si scontrano tuttavia con degli elementi di contesto, che potrebbero far emergere ripercussioni fortemente negative su scala globale.

I problemi potrebbero in primo luogo derivare dalla questione di Taiwan, il cui eventuale riconoscimento da parte americana potrebbe innescare nella Cina un livello di tensione tale da portare direttamente a una terza guerra mondiale. L’ex Impero di Mezzo, per questioni interne, non può permettersi di mollare la presa su Taiwan, rispetto alla quale ha da sempre proclamato la dottrina “un Paese, due sistemi” accomunandolo a Hong Kong.

Non è un caso, del resto, se dagli anni ’70 la politica americana si è fondata sulla cosiddetta ambiguità strategica (formula diplomatica che ha permesso agli Usa di sostenere militarmente l’isola in cui si era rifugiato il leader nazionalista Ciang Kai-shek sconfitto da Mao Zedong, senza tuttavia essere vincolata a un patto interventista tipo Nato).

In secondo luogo, azioni eccessivamente orientate a mettere pressione alla Cina sul Mar Cinese meridionale potrebbero contribuire a esacerbare gli animi: in quella porzione di oceano transita larga parte delle merci cinesi destinate verso l’Europa. Aumentare la presenza di portaerei potrebbe in altre parole contribuire a generare una sorta di sensazione di asfissia nella leadership di Pechino.

Sul fronte economico, l’avvio dell’Ipef potrebbe invece non tradursi nel risultato auspicato – ovvero una maggiore integrazione economica tra Usa e una serie di Paesi asiatici (tredici) – se la Casa Bianca non decide di eliminare dazi e barriere tariffarie nei confronti di questi Paesi, che fondano larga parte della loro economia sull’export e, in questo senso, sono fortemente connessi anche con la Cina.

WASHINGTON CORREGGA IL TIRO

L’azione potrebbe invece contribuire a creare zone economiche fortemente integrate al loro interno, ma poco interconnesse dal punto di vista commerciale: un fatto a mio avviso negativo visto che in fondo la vituperata globalizzazione ha fatto uscire miliardi di persone dalla povertà, mentre ogni volta che abbiamo eretto steccati abbiamo creato enormi problemi economici e tensioni sociali.

In questo quadro, mi permetto di auspicare che in futuro la Casa Bianca modifichi in parte il tiro onde evitare di registrare ripercussioni negative per le sorti del pianeta. In particolare, auspico un’azione americana non solo e non tanto orientata all’isolare la Cina (obiettivo, peraltro, quasi impossibile), quanto piuttosto a un dialogo, anche assertivo e muscolare, che tenga in conto di alcuni “punti di non ritorno” (quali Taiwan) sul fronte negoziale.

In questo senso, la guerra in Ucraina dovrebbe averci insegnato che la sindrome da accerchiamento, giusta o sbagliata che sia, porta a situazioni che possono diventare pericolose e sfuggire di mano.


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