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La vicenda afghana impone una riflessione sui costi umani, politici ed economici della disastrosa politica estera americana e occidentale. Già ieri un commento del New York Times affermava che «il predominio militare globale degli Stati Uniti è controproducente per gli interessi americani». E forse pure per i nostri interessi. L’egemonia del complesso militar-industriale ha portato a una sequela di fallimenti, dall’Afghanistan all’Iraq alla Libia.

LA UE DEVE SVEGLIARSI

Per l’Italia e l’Europa è ora di svegliarsi e di capire che neppure la Nato si può esimere da una ripensamento del suo ruolo. L’Alleanza atlantica, pagata per l’80 per cento ancora dagli Usa, è stata partecipe dei fallimenti americani, in particolare in Afghanistan e in Libia, e potrebbe tra poco ereditare in Iraq una situazione assai complicata.

Gli americani si ritireranno a fine anno e il loro compito verrà assunto da una missione Nato che avrà al comando proprio l’Italia, che metterà in campo un contingente di 1.100 soldati. Chissà perché di questo gravoso impegno preso dall’Italia e dalla Nato si parla assai poco. Eppure dopo il ritorno dell’Isis sulla scena e vista la fragilità dell’Iraq dovrebbe essere un argomento di primo piano.

La decisione di potenziare l’impegno della Nato in Iraq è avvenuta proprio sulla scia delle grandi difficoltà registrate dagli Stati Uniti nel Paese, tra gli attacchi alle basi americane e le rimostranze della stessa politica irachena (con influenze di Teheran) dopo l’uccisione a Baghdad del leader iraniano Qassem Soleimani, a gennaio dello scorso anno.

IL RUOLO DELL’IRAQ

L’instabilità irachena è cronica e viene influenzata da tutte le parti: dalle milizie sciite, dai raid israeliani sui gruppi filo-iraniani, dalla stessa Turchia, membro Nato, che bombarda curdi e yazidi quando gli pare con la scusa di contenere il Pkk. E anche su questo punto nessuno dice niente: un Paese dell’Alleanza che fa quello che vuole su un territorio dove stiamo rafforzando la nostra presenza militare.

E ovviamente in Iraq c’è ancora l’Isis, che non è stato per niente eliminato, come era stato proclamato da Trump. Non è un caso che il potenziamento della missione Nato stia avvenendo attraverso un progressivo trasferimento di competenze dalla Coalizione globale anti-Daesh, nata con lo specifico obiettivo di combattere e sconfiggere il Califfato.

Insomma, non è una passeggiata, anche se come al solito viene enfatizzata la parte di addestramento delle forze armate locali, impegnate a tenere a bada un territorio e uno spazio aereo dove la loro efficacia è assai limitata e in alcune regioni e contesti, come nel Kurdistan iracheno e nelle aree sciite, quasi risibile.

GLI INTERESSI ECONOMICI

Allora che ci andiamo a fare? Alla lotta al terrorismo si aggiungono interessi di natura strategica ed economica. Secondo i dati dell’Unione energie per la mobilità (Unem), nel 2020 l’Iraq è stato il secondo fornitore di greggio al nostro Paese (preceduto solo dall’Azerbaijan), coprendo oltre il 17% della domanda nazionale. Nel 2019 era al primo posto, con una quota del 20%, mentre nei primi quattro mesi del 2021 si colloca al quarto posto, dopo Azerbaijan, Libia e Arabia Saudita.

Ma nella sostanza gli americani ci passano la patata bollente irachena. In questo Paese sono arrivati nel 2003 propagandando la più grossa bugia della politica internazionale, ovvero che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa che non sono mai state trovate. Il presidente americano Bush jr e il premier britannico Blair dovrebbero essere perseguiti come criminali di guerra, viste le centinaia di migliaia di morti che hanno causato, oltre ad aver devastato l’intero Medio Oriente che da allora non ha fatto che precipitare nel caos.

Non solo: proprio l’avventura irachena distolse l’attenzione, risorse militari e finanziarie all’Afghanistan, moltiplicando le probabilità che anche Kabul finisse nel marasma come abbiamo visto in queste settimane.


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