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Putin ospite ai Giochi invernali di Pechino

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“Sleepy Vladimir” sonnecchiava o forse fingeva: aveva chiuso gli occhi quando sarebbero comparsi alla sua vita la bandiera e gli atleti dell’Ucraina nel “Nido d’Uccello”, lo stadio di Pechino dove ieri sono stati ufficialmente aperti iGiochi Olimpici invernali 2022, che già sono iniziati in realtà da un paio di giorni e una coppia mista del curling azzurro sta già spazzando il ghiaccio davanti a pietre che non rotolano mascivolano.

“Sleepy Vladimir” è Putin: era lui l’ospite politicamente più “pesante” e importante nella capitale cinese che da ieri è la prima città al mondo buona per tutte le stagioni, per il sole che bruciò i Giochi Estivi del 2008 e per la neve che gela quelli di oggi.

Curioso affare politico: nella strumentalizzazione che la Grande Diplomazia cerca di fare delle Olimpiadi (che alla fine sportivamente se ne fregano), fu a Los Angeles ’84 che si consumò il dissidio russo-cinese, quando gli “atleti di Mao”, che era morto da un po’. I comunisti cinesi si presentarono per la prima volta nell’olimpismo proprio quando gli allora sovietici obbligarono tutti i satelliti al boicottaggio per ripicca. Era l’antica formula de “il nemico del mio nemico è mio amico”; i cinesi, come gli americani, ce l’avevano con i russi e dunque si tenevano “vicini vicini”.

Ora i cinesi, come i russi, ce l’hanno con gli americani (o viceversa) e dunque il “cuore a cuore” lo fanno loro. Non c’è boicottaggio di atleti ma diplomatico. La parata dei capi di stato e di governo, re o presidenti, ministri o dignitari, è mancata al “Nido d’Uccello”, ma gli atleti, che rappresentano la “società civile”, ci sono tutti, per un totale di 92 Paesi. D’estate sono 206, ma, come si sa, non nevica in tutto il mondo e dunque a certe latitudini gli sport d’inverno sono impraticabili quando non addirittura sconosciuti, magnifica eccezione i giamaicani del bob.

La Grande Diplomazia che non sa risolvere i problemi, li scopre ogni volta e li porta all’ordine del gioco quando l’audience cresce, cioè ai tempi delle Olimpiadi. Questo è il turno degli uiguri, musulmani di Cina che il regime pechinese tratta con il suo solito pugno di ferro. Ma cosa hanno fatto i Potenti per tutelarli? Zero carbonella. Se ne ricordano ora e, continuando a fare affari con i cinesi, si lavano la coscienza con la “condanna olimpica”, alla quale la Cina risponde affidando il compito di ultimo tedoforo, quello che accende il braciere allo stadio, in questo caso una coppia, alla ragazza 21enne Diniger Yilamujiang, uigura venuta dallo Xi-jahn, la regione del “genocidio”.

È stato il moneto clou della Cerimonia d’Apertura che ha i suoi solti splendidi simboli: Zhang Ymou, il regista di “Lanterne Rosse”, ha puntato tutto su un’idea, “Cina è futuro”. Così ecco la tecnologia più avanzata, laser e led, accompagnata da bambini in scarpette rosse, che è il colore dell’Anno della Tigre appena iniziato; ecco il bambino trombettiere; ecco il presidente del Cio, il tedesco Thomas Bach, citare John Lennon e il suo “Give peace a chance”, date una possibilità alla pace, che il SuperBeatle scrisse nel letto della stanza 1742 del Queen Elizabeth Hotel di Montréal, Canada, anno 1969, mentre portava avanti il suo bed-in con Yoko Ono.

I bambini cinesi hanno cantato in greco l’inno olimpico secondo il testo originale; forse sembrava una copia, un fake, come del resto a Pechino sarà la neve. Non è città nota per le sue piste ed i suoi impianti sciistici, ma i cinesi, si sa, sanno “falsificare” tutto, le borse di Chanel e i Rolex, figurarsi se non sanno “falsificare” neve e ghiaccio che fanno da campo di gara ai Giochi Invernali. E sanno farlo che non distingui il falso dall’originale.

C’era tutto in quest’ora e mezza di bella cerimonia: c’era il portabandiera delle Samoa Americane, torso nudo e muscoli unti imitatore a sua insaputa di Achille Lauro al Fantasanremo, e dal toy-alfiere di Tonga che da Rio in poi s’è dedicato alla carriera scatena ormoni; c’era Federica Pellegrini ad applaudire dalla tribuna le stelle sfilanti dell’Italia, le quali, vestite di Armani, indossavano un mantellone tricolore che non era la sobria eleganza di Re Giorgio (mancavano, malati di Covid, asintomatici e isolati, sia Valentina Vezzali, sottosegretario allo sport, che Giovanni Malagò, presidente del Coni, duellanti a distanza sul sesso non degli angeli ma dei soci Aniene); c’era il principe di Monaco, il presidente del Kazakhistan e quello del Turkmenistan, una principessa thailandese, un messaggio di Ciccio Kim, il dittatore nordcoreano.

E c’era, dominante, Xi Jiping, il numero uno cinese, che ha dichiarato aperti i Giochi di Pechino 2022, dopo che, probabilmente, nei suoi colloqui con Vladimir Putin quando era sveglio ha parlato di ben altri Giochi, quelli della vita quotidiana che tutti ci coinvolgono. C’erano, sul ghiaccio al laser, 76 giovani di tutto il mondo che camminavano prorompenti e fiduciosi come verso il futuro mentre tutto intorno scorrevano immagini ad altissima risoluzione di scene d’ogni giorno e d’ogni mondo. E veniva da citare Thomas Bach che aveva citato John Lennon: “Give peace a chance”. Lo sport gliela dà.


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