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Lord Keynes e Christine Lagarde

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9 minuti per la lettura

di ATISH R. GHOSH*

L’anziano gentiluomo, elegantemente abbigliato nel suo completo con cravatta a righe, ricambia lo sguardo perplesso. Il custode sospira in modo ostentato. «Chi è lei? Come si chiama?».

«Keynes. John Maynard Keynes. Lord Keynes».

«Senta, amico, per me può essere pure il Signore degli Anelli, ma non posso farla entrare nell’edificio se non vedo un documento di identità».

Un impiegato passa di corsa, in ritardo per il lavoro, ma si ferma di botto e si gira. È Keynes! Lo riconosce dal busto di bronzo che campeggia nella sala riunioni del consiglio. «Mi scusi», dice tirando fuori il suo passi e mostrandolo alla guardia. «Mi occupo io di questo signore».

«Gli faccia avere un passi visitatori», gli grida dietro il custode.

Entrano nel quartier generale del Fmi. «La prego, Lord Keynes, vuole sedersi mentre io…».

«Non mi stavate aspettando? Non avete ricevuto il mio telegramma?».

«Ah… temo di no. Aspetti, vado ad avvisare l’ufficio del direttore generale. Sono sicuro che loro potranno risolvere la faccenda».

«È vero che sono un po’ in ritardo. I treni americani, sapete, non sono mai puntuali…», bofonchia Keynes mentre si mette seduto sulla panca in pelle, un po’ stordito dall’assortimento di bandiere che adorna l’atrio.

Passano venti minuti prima che l’impiegato ricompaia. «Il direttore generale sarà felice di incontrarla subito», gli annuncia. «È molto gentile da parte del signor… ehm, com’è che si chiama?».

«Lagarde. Christine Lagarde».

«Una signora? Una signora francese?».

L’impiegato annuisce.

«Oh beh, allora avremo la seconda carica, presumo».

«Il primo vicedirettore generale è un americano, David Lipton».

«Ah, certo, gli americani. Ma sicuramente avremo la terza carica! Insomma, la quota della Gran Bretagna è la seconda più alta. E lo so bene, visto che l’ho negoziata io stesso».

L’impiegato tossisce contrito. «In realtà ora è il Giappone ad avere la seconda quota più alta. Seguito dalla Cina e dalla Germania. Ma il Regno Unito ha la quinta quota, alla pari con la Francia», aggiunge in tono consolatorio.

Keynes sta ancora digerendo queste informazioni quando viene fatto entrare nell’ufficio del direttore generale.

«Lord Keynes, che onore incontrarla».

«Enchanté, Madame».

«Mi dispiace molto non aver potuto organizzare un’accoglienza migliore. A essere sincera, non la stavamo aspettando…».

Keynes accenna un sorriso: «Lo so. Sono nel lungo periodo ormai da parecchio tempo. Ma non ho potuto resistere alla tentazione di venire a far visita al Fondo oggi, in occasione del 75° compleanno».

La Lagarde gli fa cenno di accomodarsi sul divano, va alla sua macchinetta Nespresso e comincia a preparare due tazzine di caffè.

«Mi dica», attacca Keynes, «il Fmi è stato un successo? Che sta accadendo? Mi pare di capire che ci sono stati alcuni cambiamenti dai tempi della conferenza di Bretton Woods».

«Non so neanche da dove cominciare», risponde la Lagarde. «Sono cambiate così tante cose».

«Beh, cominci dall’Accordo istitutivo. C’era costato una gran fatica, avevamo negoziato su ogni parola. Voglio sperare che quello non sia cambiato».

«Nel complesso, no. Ma ci sono stati alcuni emendamenti».

«Come ad esempio?».

«Il primo emendamento è stato apportato per creare i Dsp, i diritti speciali di prelievo. È una specie di… beh, è complicato. Ma può immaginarli come una moneta virtuale fra Banche centrali. Servono a garantire liquidità al sistema monetario internazionale, quando necessario. Nel 2009 abbiamo fatto una grossa distribuzione di questi Dsp».

«Sembrano simili al mio bancor!».

«Sì, esattamente», ride Christine Lagarde. «Dimenticavo. Non devo certo spiegare a lei come funzionano i Dsp. Vediamo, cos’altro è cambiato? Direi che l’altro grande cambiamento è stato il secondo emendamento, che ha legittimato i tassi di cambio fluttuanti».

«Tassi fluttuanti! Ma avevamo creato il Fmi proprio per portare stabilità nei cambi, dopo il caos totale negli anni tra le due guerre».

«Il sistema di tassi di cambio fissi creato a Bretton Woods è crollato all’inizio degli anni 70».

«E allora perché il Fmi non è stato chiuso?».

«Oh, il mondo ha scoperto ben presto che aveva ancora bisogno di noi. Peraltro, anche con i tassi fluttuanti, svolgiamo un’attenta attività di vigilanza sulle politiche valutarie degli Stati membri, per accertarci che non manipolino la loro valuta per ricavarne vantaggi commerciali iniqui».

«Ma guarda. E vi stanno a sentire?».

Christine Lagarde fa una risatina. «Beh, forse non sempre», ammette. «Gli Stati Uniti si lamentano sempre che i Paesi in surplus intervengono per evitare che le loro monete si apprezzino: prima erano la Germania e il Giappone a essere sul banco degli imputati. Fino a poco tempo fa era la Cina. Qualche anno fa siamo stati perfino accusati di ‘dormire al volante’, di venire meno al nostro fondamentale dovere di vigilanza».

«Ah, all’epoca dissi a Harry Dexter White: così impedirete al Fmi di costringere i Paesi in surplus a correggere il tiro; volevo sanzioni simmetriche per i Paesi in surplus e i Paesi in deficit, sa. Ma White e la banda del Tesoro americano opposero una fiera resistenza. Misi in guardia White, dicendogli che non sarebbero rimasti eternamente un Paese in surplus, e che allora si sarebbero pentiti. Lui diceva: ‘Questo non è un problema: gli Stati Uniti saranno sempre convinti sostenitori del libero scambio’. Immagino che sia ancora così».

«Più o meno», replica ironica Christine Lagarde. «Quindi le Banche centrali non intervengono più sui mercati dei cambi?». «Se hanno tassi fluttuanti, no. Non è previsto che intervengano, tranne in casi di condizioni di mercato perturbate».

«I mercati non sono sempre perturbati?».

Christine Lagarde si alza per prendere i caffè dalla macchinetta, poi improvvisamente cambia idea e si dirige verso un piccolo frigorifero nascosto dietro il rivestimento in legno della parete, e tira fuori una bottiglia di champagne La Grande Dame.

«Mi sembra molto appropriato», ride Keynes. «Evidentemente ha sentito dire che l’unica cosa che rimpiango nella vita è di non aver bevuto più champagne». Si alza e si dirige verso di lei.

«Questo l’ho trovato nel frigo quando sono entrata qui per la prima volta. Lo tenevo da parte per un’occasione molto speciale e credo che oggi lo sia», sorride il direttore generale porgendogli un bicchiere.

Fanno un brindisi. «Mi dica», chiede Keynes riaccomodandosi nella sua sedia. «Ha funzionato bene la mia idea del bancor, com’è che l’avete chiamata, diritti speciali di prelievo? Ha detto che avete effettuato una grossa distribuzione di questi Dsp alcuni anni fa. Per quale motivo?».

Christine Lagarde lo guarda stupita, poi dice: «Ma certo, lei non sa nulla della crisi finanziaria mondiale».

«Non mi dica! Abbiamo avuto un’altra Grande Depressione?».

«No. Un decennio fa abbiamo avuto una grande crisi finanziaria che avrebbe potuto trasformarsi in una Grande Depressione. Ma fortunatamente abbiamo imparato qualcosa dalle sue teorie: il Fmi ha raccomandato a tutte le grandi economie di mettere immediatamente in atto un piano di stimoli di bilancio, accompagnato da un allentamento su larga scala della politica monetaria».

«E la recessione è passata?».

«Più o meno. Da allora l’economia mondiale è sempre rimasta un po’ traballante».

«Ma gli stimoli di bilancio hanno funzionato?».

«Sì, ottimamente. Anche se alcuni Governi hanno speso troppo e i livelli di indebitamento sono saliti enormemente».

«E l’allentamento monetario?».

«È stato fondamentale».

«Ma non si è tradotto in flussi di capitali vaganti? O forse oggi avete metodi molto migliori per gestire i flussi di capitali?».

Christine Lagarde alza le spalle. «Ci sono stati flussi importanti verso le economie in via di sviluppo e le economie emergenti. E in quei Paesi le imprese hanno incrementato la loro esposizione in dollari, a livelli pericolosamente alti».

«Bisognerebbe consentire che i capitali produttivi vadano dove possono essere utilizzati al meglio. Ma flussi di capitali vaganti lasciati senza alcun controllo…». Keynes scuote la testa sgomento. «Io e White eravamo pienamente d’accordo su questo punto quando stilammo l’Accordo istitutivo, ma poi i banchieri di New York misero le mani sulla nostra bozza e fu la fine. Comunque, tutto questo succedeva un po’ di anni fa. Quali sono i problemi con cui si deve misurare il Fondo oggi?».

«Sono moltissimi», risponde la Lagarde. «Come le ho accennato, ancora adesso, a distanza di 10 anni dalla crisi, l’economia mondiale è traballante. In più dobbiamo fare i conti con una serie di problematiche nuove: la disuguaglianza di reddito, gli sforzi per raggiungere una maggiore parità di genere, i cambiamenti climatici».

«Cambiamenti climatici? Intende il tempo? Come può cambiare il clima?».

«Il mondo produce migliaia di tonnellate di anidride carbonica ogni anno, oltre ad altre sostanze inquinanti, e questo ha portato aumenti delle temperature medie, lo scioglimento delle calotte polari, l’innalzamento del livello dei mari…».

«Santo cielo», dice Keynes. «Sembra spaventoso. Ma che cosa ha a che fare con il Fondo?».

Christine Lagarde glielo spiega. Sta proprio per finire quando si sente bussare discretamente alla porta e la sua assistente infila la testa dentro. «Madame Lagarde, la aspettano per presiedere la riunione del consiglio: inizierà fra pochi minuti».

«Di nuovo?», sospira la Lagarde. «Bene, grazie, sarò lì fra un istante».

Keynes si alza in piedi. I suoi baffi si contorcono in un sorriso. «Dicevo sempre che il Fondo doveva avere un consiglio esterno».

«Senta, perché non passa il resto della giornata al Fondo?», gli chiede la Lagarde mentre si prepara a uscire. «La mia assistente le farà fare un giro e potrà vedere con i suoi occhi come se la passa il Fondo. Ricordi di venire a salutarmi prima di andar via».

***

Il sole comincia a calare su quella che promette di essere una bellissima serata d’estate a Washington quando Keynes ritorna nell’ufficio del direttore generale.

«Allora, cosa gliene pare?», gli chiede la Lagarde.

«Mi sembra che tutto sia cambiato. Ai miei tempi c’erano tre costanti: il tempo, la quota del lavoro sul reddito nazionale e – mi dispiace dirlo – il posto delle donne nella società. Ora tutto sembra in movimento. Al tempo stesso, però, nulla è cambiato. Il Fondo deve ancora aiutare i Paesi a correggere i loro problemi con la bilancia dei pagamenti senza ‘ricorrere a misure distruttive per la prosperità nazionale o internazionale’. Deve ancora contribuire a suddividere in modo equo l’onere dell’aggiustamento tra Paesi in surplus e Paesi in deficit, e gestire la volatilità dei flussi di capitali tra Paesi d’origine e Paesi di destinazione. E occasionalmente deve ancora intervenire per regolare la liquidità a livello mondiale. L’unica cosa che è cambiata è la natura degli shock e dei problemi con cui devono misurarsi i Paesi. Ma la missione fondamentale del Fmi – aiutare i Paesi membri ad affrontare questi problemi – rimane la stessa. Il nostro vero successo a Bretton Woods non fu l’aver creato il sistema di valori nominali e parità fisse. Fu l’aver creato un’istituzione capace di adattarsi – come infatti è stato – per rendere un servizio agli Stati membri».

«Proprio così», replica il direttore generale. «Venga, l’accompagno all’uscita».

In ascensore rimangono in silenzio, assorti nei loro pensieri.

«Qualche altra osservazione?», chiede Christine Lagarde mentre guida Keynes fuori dalla porta.

«Sì», risponde Keynes. «Quando vedo uomini – e donne – di ogni razza, di ogni nazionalità e di ogni credo lavorare insieme per il bene comune, so che il Fmi è in buone mani. E», sorride, «quando il Fmi è in buone mani, il mondo è in buone mani».

Con un leggero inchino, si volta e si allontana a piedi, scomparendo in fondo alla 19ª strada.

*Atish R. Ghosh è lo storico del Fondo monetario internazionale.

(traduzione di Fabio Galimberti)


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