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Di fronte all’emergenza sanitaria, gli anziani sono sicuramente la fascia di popolazione che paga le conseguenze più alte. Se chi ha raggiunto la tarda età è più a rischio in situazioni di instabilità, questo non deve portare alla svalutazione della longevità come fattore determinante del benessere sociale. Che si dica che l’Italia è “una nazione per vecchi” è una affermazione che viene fatta con recriminazione, mentre, piuttosto che rammaricarsi, bisognerebbe leggere questo dato come la conseguenza positiva del raggiungimento di un certo benessere nazionale. In un paese in cui si è riusciti ad allungare la vita fino ad una certa età, chi si ammala dovrebbe essere curato e si dovrebbe cercare di permettergli di fare ancora una vita decente. In una società dei consumi, il mercato inevitabilmente si allarga fino ad includere gli anziani come una particolare categoria di consumatori, rivoltando il principio per cui dovrebbe essere l’economia al servizio dell’uomo e non viceversa.

Questa affermazione si aggiunge all’aumento delle morti nelle strutture di assistenza per anziani, attribuito al coronavirus. Nell’ultimo mese si è molto discusso della gestione dell’emergenza presso uno dei centri di assistenza sanitaria per anziani più famosi di Milano, dove ci sono state diverse decine di morti riconducibili al virus e mai registrate ufficialmente come tali. Non si tratta di un caso isolato e molte sono state le denunce, anche al di fuori della regione Lombardia, di chi ha sostenuto che l’aggravarsi dei casi in queste strutture sia stato facilitato anche dalla impossibilità di effettuare i tamponi, non disponibili né per il personale sanitario né per i pazienti.

Con questa motivazione, gli eventuali decessi sono stati dichiarati riconducendo le morti a patologie d’altra natura. Una circostanza grave, su cui si sta cercando di fare luce tramite commissioni di inchiesta ed indagini su territorio nazionale. La vecchiaia è diventata, dunque, un problema sociale, soprattutto perché nel nostro Paese abbiamo quasi 14 milioni di over 65. Sono i soggetti più fragili sui quali si concentra l’elevata probabilità che il virus sia letale, ma in casi di tarda età i decessi vengono spesso archiviati frettolosamente. Queste morti, una delle principali conseguenze dell’epidemia, vengono così accettate come un suo effetto collaterale quantomeno sopportabile. L’impressione è che sia divenuto tollerabile il decesso di chi ci si aspetta abbia comunque poco da vivere, la cui debilitazione non diviene così motivo di tutela ma piuttosto giustificazione della perdita. Col propagarsi del virus, nei reparti di terapia intensiva i medici si sono talvolta trovati a dover operare delle scelte, quando i macchinari o finanche i posti letto erano già tutti occupati.

Il problema dell’accesso dei pazienti alle cure in condizioni di risorse sanitarie limitate è un argomento su cui si è espresso il Comitato Nazionale per la bioetica, che ha ribadito come la valutazione medica si basi su criteri di appropriatezza clinica, considerando il bisogno di ogni singolo paziente in riferimento alla gravità della patologia ed alla possibilità prognostica di guarigione. Per questo, talvolta, si è scelto di tutelare i soggetti legittimamente giudicati di avere una migliore possibilità di guarigione. Ma tale posizione, tragicamente comprensibile, se tradotta a scapito dei più anziani rischia di impedire una corretta elaborazione del lutto. Ogni morte che viene occultata sotto il tappeto della vecchiaia ci viene presentata dai media quasi come rassicurante. D’altra parte, un’epidemia che si dimostra letale principalmente per i più fragili è ragionevolmente meno pesante da sostenere psicologicamente rispetto ad un male che porta via i più giovani, la cui vita sembra immediatamente più significativa.

L’aggravarsi della situazione epidemiologica potrebbe esacerbare una condizione di emarginazione della vecchiaia che era già conseguenza di un sempre più netto conflitto generazionale. Le vittime anziane non ci impressionano più, così che ci stiamo abituando a vedere la senilità come se già di per sé fosse una mezza malattia e non più come una stagione dell’umano.  Nelle società tradizionali, che evolvono lentamente, l’anziano è il simbolo del patrimonio culturale della comunità e gode pertanto del rispetto degli altri membri della stessa. La vecchiaia porta con sé quell’esperienza che ai giovani manca e che hanno bisogno di apprendere. In una società come la nostra, tuttavia, il mutamento sempre più rapido sia dei costumi che dello sviluppo tecnologico ha finito per capovolgere il rapporto tra chi conosce e chi no.

Gli anziani sono ora coloro che non sanno, anche perché hanno maggiore difficoltà di apprendimento rispetto ai giovani. Se l’invecchiamento culturale accresce l’emarginazione sociale dell’anziano, il problema della vecchiaia biologica in rapporto all’epidemia rischia di divenire devastante per le generazioni di terza età, se il sistema sanitario non ha i mezzi per farsene carico. Situazione che avvertiremo come preoccupante solo quando si smetterà di sfruttare l’impatto comunicativo del rassicurante “largo ai giovani”, esaltando il mito della giovinezza a scapito di una senilità che ci è più comodo dimenticare.


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