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A fronte di una carenza drammatica di medici, i nostri giovani si scontrano con il numero chiuso della facoltà di medicina delle università e si iscrivono all’estero

LA SCORSA estate, il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto, commissario ad acta per la sanità, insieme al rettore Nicola Leone, ha accolto all’Università della Calabria, 120 medici cubani giunti all’aeroporto di Lamezia Terme. I nuovi 120 camici bianchi caraibici si sommano ai 51 medici arrivati a dicembre 2022, e che da gennaio 2023 prestano servizio in quattro ospedali della provincia di Reggio Calabria. Per la Campania si evidenzia che mancano all’appello da 10.000 a 13.000 unità nelle corsie, di cui circa 2.000 medici. I bandi di concorso per i medici vanno spesso deserti e devono assorbire ogni anno la quota di personale che va in pensione, dai 3.000 e 3.500 camici bianchi. Ma la situazione è analoga in tutto il Paese. Tanto che ormai il ricorso ai medici a gettone è frequente e generalizzato. Questi sono assunti da società private o da cooperative. In maggioranza molto giovani, senza esperienza né specializzazione, i medici a gettone vengono pagati il doppio, se non il triplo, dagli ospedali pubblici, rispetto ai colleghi. Inoltre, non essendo assunti dall’azienda ospedaliera hanno anche meno responsabilità e nessun compito burocratico.

Le conferme sull’interesse per tale inquadramento vengono da un sondaggio della Federazione sindacale dei medici (CIMO-FESMED), che evidenzia come vi sia una netta propensione ad abbandonare il servizio sanitario pubblico per lavorare a chiamata. Il 37,6% del campione interpellato vuole spostarsi alle coop, percentuale che aumenta per le fasce più giovani: 50% per i dottori con meno di 35 anni e 45% per chi ha tra i 36 e i 45 anni.

Insomma, è ormai assodata la carenza drammatica di professionalità mediche in tutto il nostro Paese. In presenza di tale situazione cosa dovrebbe fare una Università che dovesse seguire gli andamenti delle realtà regionali? Probabilmente fare comunicazione per incoraggiare i ragazzi a iscriversi alla facoltà di medicina. Sta avvenendo tutto questo in Italia? Lo sappiamo tutti non solo che questa non è la politica che si sta portando avanti, ma si assiste al blocco all’entrata di coloro che vogliono diventare medici, con l’introduzione di un numero chiuso, il cui senso oggi è difficile capire. E la massa di giovani che vogliono percorrere la carriera medica sono costretti, rifiutati dalle nostre università, a iscriversi a corsi di studio di università straniere, per esempio in Romania, con costi ovviamente moltiplicati, in modo da avere poi riconosciuto il titolo anche nel nostro Paese. La Romania in questi anni è diventata una meta molto ambita per studiare medicina, perché l’accesso non è a numero chiuso, non c’è esame di ammissione e, una volta conseguita la laurea, il titolo ha valore legale in Italia. Peraltro il costo delle tasse universitarie è abbastanza contenuto (tra 3.000 e 5.000 euro/anno). Vivere in Romania, inoltre, costa meno che in Italia. Si capisce come tutto questo sembra la commedia dell’assurdo. La giustificazione del numero chiuso in Italia è quella di evitare che aumenti talmente il numero dei giovani laureati da avere, come accadeva qualche anno addietro, un esubero di medici che rimarrebbero disoccupati. Ma allora perché non il numero chiuso per gli avvocati o per i commercialisti? Ma anche la programmazione avviene in base alla capacità degli atenei, per la salvaguardia della qualità formativa e i posti sono calcolati sulle esigenze a medio termine da Ministero della salute e dalle Regioni. È questa la ratio che sta dietro la scelta dell’accesso a ‘numero chiuso’ per Medicina e per alcune altre facoltà a carattere scientifico, anche se puntualmente pure quest’anno si è riaperto il dibattito sulla necessità di rendere libero l’accesso, tema che ritorna anche in campagna elettorale. Intanto oltre 65mila candidati sono stati alle prese con la prova per accedere ai corsi di laurea in medicina e chirurgia e odontoiatria, ma a fronte di appena un po’ meno di 16.000 posti disponibili.

E allora? Per quanto attiene al primo tema non si capisce perché non ci debba essere una concorrenza virtuosa in modo che, invece di avere la garanzia che basta essere laureato in medicina per accedere a livelli remunerativi impensabili per altre professioni, non debbano anch’essi essere soggetti ad una sana concorrenza che faccia emergere i migliori e che lasci i mediocri ai margini del mercato, come avviene per qualunque altra professione. Per il secondo tema, quello relativo alle capacità delle università di formare le nuove professionalità, va affrontata la problematica relativa. Moltiplicando, per quanto possibile, i corsi, magari coinvolgendo strutture sanitarie diverse da quelle universitarie, se quest’ultime hanno un tetto troppo contenuto rispetto alle esigenze effettive del Paese. Stendiamo invece un velo pietoso sui calcoli delle esigenze a medio termine, effettuati dal Ministero della salute e dalle Regioni. In particolare il Mezzogiorno, nel quale lavora una persona su quattro, potrebbe certamente essere in condizione di fornire capitale umano per professionalità mediche, se adeguatamente formate, per supplire a una carenza ormai diventata drammatica. In realtà in un’ipotesi ideale dovrebbe avere la possibilità di formare anche i giovani medici per le Regioni che si affacciano sul Mediterraneo, in particolare quelle del Nord Africa, che hanno meno capacità e possibilità di formare le categorie professionali che servono.

In tutto questo la velocità decisionale diventa fondamentale, mentre i tempi per qualunque tipo di indirizzo sembrano infiniti, come in qualunque altra ipotesi di cambiamento. Nel frattempo gli episodi di violenza di pazienti esasperati in attesa nei pronti soccorso diventano sempre più frequenti e meno controllabili. Forse è arrivato il tempo per intervenire prima che la situazione si degradi ulteriormente.


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