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Rosario Livatino

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Per la Chiesa Rosario Livatino, il giudice “ragazzino” ucciso in un agguato il 21 settembre del 1990 era già un “Servo di Dio” ma anche “servo” della Giustizia. Da ieri, su iniziativa di Papa Francesco quel servitore onesto dello Stato è diventato “Beato”.

La Santa Sede ha infatti riconosciuto il martirio in odium fidei (in odio alla fede). È questo il contenuto di un decreto di cui papa Francesco ha autorizzato la promulgazione, nel corso di un’udienza col cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione per le cause dei santi, il “giudice ragazzino” ucciso “in odio alla fede” il 21 settembre 1990.

Ieri il Papa ha autorizzato la Congregazione a promulgare il decreto che ne riconosce il martirio.

Si tratta del primo magistrato beato nella storia della Chiesa. Prima della sua morte Rosario Livatino era sconosciuto ai più, ma ai cronisti dell’ epoca era noto per la sua serietà e onestà e, soprattutto, per essere un gran lavoratore che non amava le luci della ribalta e che in silenzio, e spesso in solitudine, faceva il suo dovere, anzi di più.

Il ritrovamento del cadavere

L’ESECUZIONE

E quando fu ucciso, qualche ora dopo, l’ho visto cadavere, coperto da un lenzuolo bianco, sollevato dal medico legale Biagio Guardabasso con accanto l’allora procuratore della Repubblica di Agrigento e alcuni investigatori. E quando l’ho visto descrissi nei minimi particolari al mio collega Attilio Bolzoni di “Repubblica” qual era la situazione.

E ricordo ancora l’attacco del suo pezzo: «Lo Stato in fondo a una scarpata» dov’era finito il giovane magistrato che disperatamente, ma inutilmente, per sfuggire ai killer aveva abbandonato la sua automobile (senza scorta, naturalmente) scavalcando il guard rail per finire in mezzo a quella scarpata dove i killer finirono per massacrarlo con un gran numero di proiettili.

Era, sì, uno dei giudici “Ragazzini”, come li aveva definiti qualche tempo primo il presidente della Repubblica Francesco Cossiga durante un intervento nel vicino palazzo di Giustizia di Gela, ma un severo e onesto magistrato. Ma, onore al merito, Francesco Cossiga si precipitò quel giorno stesso ad Agrigento per esprimere di persona agli anziani genitori di Rosario Livatino le sue condoglianze e quelle della maggioranza degli italiani. Un gesto meritorio perché in seguito, anche dopo le stragi in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i presidenti della Repubblica arrivarono soltanto dopo.

E quando un giovane e sprovveduto cronista chiese a Cossiga «Una battuta» su quell’ orrendo omicidio, Cossiga sbottò: «Una battuta?» e lo mandò a quel paese.

E fu quel giorno stesso, grazie a una fonte, che io e il collega Fabio Albanese apprendemmo che per fortuna c’era stato un testimone, un automobilista non siciliano, che aveva assistito a quel massacro.

E fu grazie a lui che gli investigatori riuscirono, dopo qualche tempo, a identificare e arrestare i killer della “Stidda” (una mafia parallela e allora poco considerata) che lo avevano ucciso.

IL RICORDO DEL TESTIMONE

E ieri quel testimone, che da anni è costretto a vivere in gran segreto, Piero Nava, appresa la notizia della beatificazione di Rosario Livatino ha detto: «Considero un dono straordinario l’idea che questo riconoscimento spirituale a  Livatino  sia avvenuto lo stesso anno, il trentennale dell’omicidio, in cui anch’io ho in parte rivisto la luce riuscendo a raccontare in un libro ciò che io e la mia famiglia abbiamo dovuto vivere».

«Quella mattina ho assistito alla barbara morte di Rosario  Livatino e ho deciso di testimoniare – ricorda Nava – Non sapevo chi fosse la vittima dell’agguato cui avevo assistito, solo molte ore più tardi ho saputo che si trattava di un giudice, di un giovane magistrato antimafia».

E anche Luigi Patronaggio, allora anche lui “giudice ragazzino” adesso procuratore di Agrigento, dice: «In un momento di grande crisi valoriale che investe la magistratura tutta, la beatificazione di Rosario Livatino è per i magistrati cattolici un dono e un segno, per tutti gli altri magistrati è comunque un esempio da seguire, pur con i limiti che quotidianamente condizionano il difficile mestiere del giudicare spesso diviso fra istanze e tensioni ideologiche e sociali difficilmente conciliabili».

Rosario Livatino. lavorava proprio presso la Procura di Agrigento. Lo scorso settembre Patronaggio aveva organizzato con l’Anm distrettuale un convegno alla presenza del Presidente della Camera Roberto Fico per ricordare il ‘giudice ragazzino’ ucciso dalla “Stidda”.

LA RISPOSTA DELLA CHIESA

Ormai dei familiari di Rosario Livatino non c’è più nessuno a Canicattì (suo paese d’ origine dove abitava). I suoi anziani genitori, religiosissimi come il figlio, sono morti e avevano sempre sperato nella beatificazione del loro figlio che hanno raggiunto in cielo.

È rimasto soltanto un cugino, Salvatore Insenga, che dice: «Oggi sono particolarmente commosso, sto pensando in questo momento a mio zio e a mia zia, i genitori di Rosario che hanno atteso questo momento per tanti, tantissimi anni. Penso che in questo momento staranno gioendo insieme in paradiso».

Per l’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro «la beatificazione del giudice Rosario  Livatino  è una risposta di speranza a questa Chiesa: viviamo in una terra non facile dove, purtroppo, la mafia continua a gestire i suoi affari, creando clientelismo e credenze che offendono la dignità umana. Oggi c’è una risposta da parte della Chiesa. In questa terra, non c’è solo la mafia, la violenza, il sopruso, ma ci sono anche delle figure straordinarie, uomini che in silenzio vivono la loro parte, scrivono la loro storia e la storia di Livatino  non è andata perduta».


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