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L’evoluzione del nuovo coronavirus è una delle variabili più attenzionate dalla comunità scientifica internazionale. La pandemia può cambiare corso a seconda della capacità di adattamento del patogeno, che può influire su capacità di veicolazione, gravità e letalità della malattia.

Se ciò avverrà in senso favorevole all’uomo o meno non è dato saperlo. Certo è, tuttavia, che ultimamente alcuni virologi italiani, sulla base di dati empirici, abbiano ipotizzato che l’infezione stia diventando, mano a mano, più mite per assicurarsi la sopravvivenza.

Ne ha parlato, fra gli altri, il prof. Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia all’Ospedale San Raffaele di Milano e professore all’Università Vita-Salute San Raffaele. Le cose, nelle ultime settimane, «sono nettamente cambiate – ha spiegato al Corriere della Sera – e, come vediamo, le terapie intensive si stanno man mano liberando».

Un virus nuovo, ha aggiunto, «è sempre molto aggressivo nelle prime fasi, poi impara a convivere con la sua “vittima”. Si tratta di un atteggiamento opportunistico, che gli consente di sopravvivere. Se un virus uccide l’ospite non ha, a sua volta, possibilità di replicarsi».

Gli ha fatto eco il prof Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di statistica medica ed epidemiologia molecolare dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, durante un’audizione alla Commissione igiene e sanità del Senato.

«Il virus sta perdendo potenza e sta continuando a mutare – ha detto -. Ma sta facendo mutazioni che a lui non sono più utili». Di conseguenza starebbe perdendo «contagiosità e, probabilmente, letalità».

Di progressivo adattamento all’uomo ha parlato anche un recente studio della London School of Hygiene and Tropical Medicine. In questo caso, però, le previsioni sono meno ottimistiche. I ricercatori britannici hanno analizzato oltre 5mila genomi di Sars-Cov-2 provenienti da tutto il mondo, rilevando diverse mutazioni che potrebbero essere la prova di questo adattamento.

Almeno due, in particolare, riguardano la proteina spike, che consente al virus di agganciarsi alle cellule per invaderle e replicarsi. Per quanto rare queste mutazioni, nella valutazione degli esperti, devono essere tenute sotto controllo.

Secondo Martin Hibberd, docente di malattie infettive e coautore dello studio, l’emersione di tale processo evolutivo richiede l’attivazione di una più stringente sorveglianza globale della malattia perché potrebbe incidere anche sulla corsa al vaccino.

Se la mutazione fosse troppo rapida – come avviene ad esempio con l’influenza – esiste, infatti, il rischio che l’eventuale profilassi debba a sua volta essere adattata per non risultare inefficacie. Un altro studio, questa volta della Sheffield University e del Los Alamos National Laboratory del New Mexico (Usa), sostiene che la mutazione della proteina potrebbe agevolare la diffusione del Covid19.

«Non credo che alle persone, giustamente preoccupate per la pandemia, interessi sapere come si stia evolvendo il patogeno. In ogni caso non è un buon virus – ha commentato al Guardian Nick Loman dell’università di Birmingham – stiamo cercando di capire se una di queste mutazioni possa cambiare il suo comportamento ma, al momento, non abbiamo prove».


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