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“Dobbiamo difendere la credibilità”: questo è il mantra delle Banche centrali che, di fronte ad elevati tassi d’inflazione – molto più alti rispetto al livello dei tassi – si sentono obbligate ad elevare i tassi-guida: altrimenti, temono, la gente perde fiducia nel fatto che i guardiani della moneta non fanno il loro mestiere.

La credibilità è una gelosa prerogativa della Fed, della Bce e delle loro consorelle. Iago, nell’«Otello» di Shakespeare, dice: “Chi mi ruba la borsa, ruba robaccia, qualcosa che vale poco o anche nulla, che era mia, o era sua, è appartenuta a migliaia. Ma chi mi toglie il buon nome mi ruba ciò che altrui non arricchisce e rende me ben povero”.

Beh, le Banche centrali non saranno mai povere, ma è vero che il ‘buon nome’ è una ricchezza, specie per i custodi di una moneta fiduciaria, che è basata, appunto, sulla fiducia, sulla convinzione che il suo valore sta nell’essere accettata da tutti e nell’avere un arcigno presidio – la Banca, appunto – che ne protegge il conio dallo svilimento dell’inflazione. Tutto giusto. Ma è vero che, nelle temperie presenti dell’economia, sia ‘cosa buona e giusta, equa e salutare’ (come recita il Prefazio) aumentare i tassi?

La credibilità deve valere per tutte le promesse delle Banche centrali, sia per quanto riguarda la difesa della moneta che per quanto riguarda le direttive della loro politica. Orbene, non molto tempo fa la Federal Reserve annunciò un nuovo principio di politica monetaria: l’inflazione cui dovevano guardare era quella di medio termine, non quella di un mese fa o di 12 mesi fa. Cosa voleva dire?

Prima di rispondere a questa domanda, precisiamo a quale tasso di inflazione la Fed si riferiva. La loro ‘stella polare’ era il deflatore dei consumi privati, al netto delle componenti volatili, quali i prezzi dell’energia e degli alimenti. Un deflatore è diverso dal più familiare indice dei prezzi al consumo, perché tiene conto dei cambiamenti nella composizione dei consumi: è come se ogni prezzo venisse a far parte dell’indice complessivo tenendo conto del peso del particolare bene o servizio consumato nel mese di riferimento; mentre l’indice dei prezzi al consumo ha dei pesi fissi, che vengono cambiati solo ogni qualche anno. Se questa, dunque, è la ‘stella polare’ cui guardare, qual è invece l’obiettivo di inflazione col quale si deve confrontare? Qui la risposta è univoca: il 2%, cioè un’inflazione che, come la minestra di Riccioli d’Oro, non è né troppo fredda né troppo calda.

E ora torniamo all’inflazione di medio termine: questa si riferiva al tasso medio di inflazione, mettiamo, negli ultimi 3 o 5 anni. Talché, se l’obiettivo è il 2%, e nei tre anni precedenti il tasso d’inflazione è stato dell’1%, non dobbiamo preoccuparci se oggi il tasso va al 4%: la media sarà sotto il 2%. Questa impostazione di medio termine della politica monetaria fu fatta propria anche dalla Bce: l’obiettivo – per la verità un po’ fumoso – di un tasso d’inflazione “inferiore ma vicino al 2% fu sostituito da un 2% secco, con la condizione, tuttavia, che quel 2% andava traguardato nel medio termine.

Andiamo a confrontare, allora, gli andamenti presenti dell’inflazione con gli obiettivi appena esplicitati. La tabella mostra questo confronto, sia per quanto riguarda il tasso d’inflazione complessivo che per quello ‘core’ (cioè al netto di energia e alimentari). Per gli Stati Uniti viene usato il deflatore, mentre per l’Eurozona si usa il ‘normale’ indice dei prezzi al consumo (a differenza degli Usa, non è disponibile un deflatore mensile).

A proposito degli indici ‘core’, questi vengono usati per guardare alle tendenze di fondo per l’inflazione: i prezzi dell’energia e degli alimentari possono essere influenzati da fattori temporanei (chiusure dei pozzi, cattivi raccolti…) e non devono dunque influenzare le risposte di politica monetaria, che devono invece temere i radicamenti dell’inflazione nelle attese di famiglie e imprese più che temporanei sbandamenti. Naturalmente, questo non vuol dire che gli indici ‘core’ siano sottratti all’influenza dei prezzi dell’energia: dato che l’energia è un bene primario e pervasivo, anche i prezzi dei cerotti o dei viaggi risentono dell’aumento di un input così fondamentale.

Ebbene, la tabella fa un confronto fra il tasso d’inflazione più recente (aprile 2022) e quello che risulta dalla media di questo e dei tassi nei tre o cinque anni precedenti. Come si vede, i numeri confermano che la Fed ha ragione a imbarcarsi nella restrizione: l’inflazione di medio termine è nettamente sopra l’obiettivo del 2%. Ma non così per la Bce: anche se per l’indice complessivo siamo sopra il 2%, l’indice ‘core’ di medio termine è nettamente al di sotto, ed è quell’indice che dovrebbe informare la politica monetaria. Tanto più nelle circostanze di oggi: un aumento dei tassi certo non farebbe scendere il prezzo del petrolio o del gas, che ha ben altre motivazioni. E, guardando all’economia reale, l’Europa è certamente più a rischio degli Stati Uniti, che godono di indipendenza energetica e di molto maggiore lontananza dal teatro di guerra. Insomma, una strategia di politica monetaria che copiasse pedissequamente quella americana, sarebbe oggi come il sale sulle ferite dell’economia europea.


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