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Christine Lagarde, presidente della Bce

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Fine degli acquisti il 1° luglio. Primo rialzo dei tassi, da 25 punti base, alla prossima riunione del consiglio direttivo, il 21 luglio. Secondo rialzo a settembre, ma di dimensioni non ancora definite. Poi si continuerà con una graduale ma sostenuta stretta. Questi, in estrema sintesi, i punti salienti della nuova manovra della Banca centrale europea, decisa ieri all’unanimità.

D’altra parte, anche la più convinta “colomba”, fra i reggitori della politica monetaria nell’Eurozona, non potrebbe che essere d’accordo con i “falchi”: c’è qualcosa che non va nella relazione fra tassi e inflazione. Un problema, questo, su cui si è chinata ieri l’analisi del Consiglio della Bce. Dall’inizio dell’euro a oggi non c’è mai stata tanta discrasia fra tassi-guida e pressioni inflazionistiche: i primi (tasso sui depositi) sono negativi (-0,5%) e le seconde sono a record storici (8% per l’indice complessivo e 4% per l’indice core, cioè al netto di energia e alimentari).

LA DISCRASIA TRA TASSI E INFLAZIONE

Al che si pongono tre domande. Primo: come spiegare tanta differenza? I reggitori erano addormentati al volante? O ci sono altre ragioni? Secondo: come, quando e di quanto si dispiegherà la “normalizzazione” della politica monetaria? Terzo: quali sono i rischi legati a questa “normalizzazione”?

Partiamo dalla prima domanda. E serve una premessa. Questo primo scorcio del XXI secolo è stato denso di sorprese, per l’economia come fatto, apparato produttivo, e per l’economia come scienza, non esatta. Prima la Grande recessione, che nessuno si aspettava, ha costretto l’economia (come scienza) a chinarsi sui legami fra economia (come fatto) e finanza. Poi la crisi da virus (che peraltro non è stata colpa di nessuno) ha portato a conseguenze inattese: nessuno si aspettava l’inflazione che ne è seguita.

Ed è questa inaspettata tensione sui prezzi che ha portato le Banche centrali a sottostimare il pericolo: le devastazioni nelle catene di offerta, si diceva, sono le principali responsabili dell’esplosione dei prezzi delle materie prime, ma poi le cose si aggiusteranno e questa inflazione si rivelerà transitoria.

Il presidente della Fed, Powell, a un certo punto disse che non bisognava più usare il termine “transitoria”, ma Paul Krugman, premio Nobel dell’economia, non era convinto e scrisse che, va bene, non la chiamo transitoria ma la chiamo “fugace”. In verità, non è stata né fugace né transitoria, e tutti – a partire dal segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen – hanno fatto ammenda.

Bisogna dire che, a consolidare l’inflazione, ci si è messo anche un altro evento che, come il virus, era impossibile da prevedere, cioè l’insana invasione russa dell’Ucraina. Insomma, per rispondere alla prima domanda, la discrasia fra tassi e inflazione è dovuta principalmente al fatto che la fiammata dei prezzi veniva vista come transitoria, e non meritava quindi una stretta monetaria.

L’altra ragione di questa “benevola negligenza” (il benign neglect anglosassone) stava nel fatto che, almeno in Europa, si considerava improbabile che questo improvviso strappo dell’inflazione avrebbe portato a una spirale prezzi-salari tale da rendere l’inflazione radicata nelle aspettative e quindi auto-alimentante.

I TEMPI DELLA NORMALIZZAZIONE

Questo perché, come argomenta uno studio di Intesa San Paolo, nell’Eurozona il mercato del lavoro appare ben lontano da un surriscaldamento simile a quello riscontrato negli Usa. Anche se è vero che in Europa il tasso di disoccupazione è sceso ai minimi dal 1998, da noi – a differenza che in Usa – le contrattazioni salariali non sono molto reattive, dato che è molto più alta la quota di lavoratori remunerati secondo contratti collettivi che si estendono su un periodo che va da un anno (come in Germania) in su.

Certo, l’aumento dei prezzi al consumo è tale da rendere probabile che i prossimi negoziati salariali vedranno aumenti nei Paesi dell’euro, anche se è possibile che, come si è orientati a fare in Germania, gli aumenti possano prender forma di una tantum (un po’ come le una tantum che molti Paesi hanno pagato, a carico dei bilanci pubblici, alle famiglie per compensarle dall’aumento dei prezzi).

E veniamo alla seconda domanda: come, quando e di quanto si dispiegherà la “normalizzazione” della politica monetaria? Ora che la Bce si è convinta che l’inflazione c’è e non tornerà in breve tempo ai livelli precedenti la crisi, si appresta ad agire. Le nuove misure, a partire dal mese entrante, saranno di due tipi: aumento dei tassi a luglio di un quarto di punto (e forse di mezzo punto a settembre) e arresto dei programmi di creazione di liquidità (che principalmente agivano tramite acquisto di titoli pubblici emessi dai Paesi dell’euro).

Ma per quanto tempo continuerà questa postura restrittiva? Una prima risposta potrebbe essere: finché l’inflazione non darà chiari segni di essere stata domata. A questo punto l’incertezza si biforca. Con la guerra in atto, molto – specie per i prezzi di energia e alimentari – dipende da come evolve il conflitto in Ucraina. Questo è il primo aspetto dell’incertezza, su cui l’economista/previsore non ha molto da dire.

Il secondo aspetto è più accessibile: un’economia che si indebolisce sgonfia la domanda e quindi raffredda i prezzi. Ma l’indebolimento dell’economia di seguito all’aumento dei tassi dipenderà più dagli effetti di fiducia legati alla guerra che dall’andamento del costo del danaro. Ancora oggi, pur dopo un aumento superiore a un punto dei tassi sui mutui in Italia dall’inizio dell’anno a oggi, i tassi sono ancora inferiori al 2% e non tali da scoraggiare la domanda di mutui. Un giovane di 35 anni che chiede oggi un mutuo a tasso fisso di 100mila euro a Roma, subirà, rispetto all’inizio dell’anno, una rata mensile che aumenta modestamente (circa 50 euro oggi, un po’ di più domani).

Se gli effetti diretti dell’aumento dei tassi-guida sono (ancora) modesti, più preoccupante è la seconda delle misure in arrivo: l’arresto dei programmi di creazione di liquidità tramite acquisto di titoli pubblici emessi dai Paesi dell’euro.

ITALIA SOLIDA

E qui veniamo alla terza domanda: quali sono i rischi legati a questa “normalizzazione” della politica monetaria? Non dimentichiamo che la Grande recessione prima, e la pandemia poi, hanno costretto gli Stati a intervenire – pesantemente e meritoriamente – per sostenere la domanda con maggiori spese e minori entrate, con ciò allargando a dismisura deficit e debiti.

E non dimentichiamo che questi deficit sono stati finanziati – pesantemente e meritoriamente – dalla Bce per il tramite delle Banche centrali dei Paesi dell’euro. E non dimentichiamo che dopo la Grande recessione, con la sua eredità di deficit e debiti, ci fu una crisi dei debiti sovrani nei Paesi più vulnerabili (i famosi Piigs: Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna).

Insomma, il rischio è che, venendo a mancare il sostegno delle Banche centrali, i Paesi a rischio – in primis l’Italia – vengano a soffrire una crisi di astinenza, con conseguente esiziale aumento dei tassi da pagare sulle nuove emissioni di titoli pubblici che la Bce non assorbe più. Questo scenario è tuttavia poco probabile, per due ragioni.

La prima è che al tempo della crisi da debiti sovrani l’Italia consumava più di quel che produceva (bilancia corrente in deficit), mentre oggi i fondamentali sono solidi: a differenza del 2013 la bilancia corrente è in surplus, l’Italia è un Paese che produce più di quel che consuma e la posizione netta patrimoniale verso l’estero è ampiamente positiva.

La seconda ragione è che la Bce è ben cosciente del rischio di un nuovo episodio di crisi da debiti sovrani e non esclude misure ad hoc – fino a rinnovati acquisti di titoli pubblici – per impedire un aumento degli spread che non sia giustificato dai fondamentali.

Qui soccorrono due affermazioni in un recentissimo blog di Christine Lagarde. Da una parte la presidente della Bce menziona un flexible reinvestment of the Peep portfolio, che vuol dire questo: la Bce non comprerà più nuove emissioni di titoli pubblici, ma continuerà, come annunciato a suo tempo, a rinnovare alla scadenza i titoli in suo possesso che dovrebbero essere rimborsati, e questo fino almeno a fine 2024 (questa misura è stata confermata nel comunicato di ieri). Ma la “flessibilità” consiste nel fatto che il quantum di rinnovi potrebbe essere concentrato nel tempo e su particolari titoli.

NUOVI STRUMENTI E LOTTA ALLO SPREAD

Questo vuol dire che tutti i titoli italiani in scadenza potrebbero essere rinnovati senza problemi. Il comunicato menziona esplicitamente la Grecia in questo contesto, ma, naturalmente, simili considerazioni valgono per ogni Paese…

La seconda affermazione contenuta nel blog di Christine Lagarde diceva che «se necessario, possiamo creare e mettere in opera nuovi strumenti per assicurare la trasmissione verso l’economia reale degli effetti della politica monetaria, quando procediamo lungo il sentiero della normalizzazione, e lo abbiamo già fatto in passato».

Ciò vuol dire che la trasmissione della politica monetaria sarebbe gravemente impedita se ci fosse una crisi da debiti sovrani, e questo deve essere, appunto, impedito. Lo spread Btp-Bund – intorno ai 200 punti base – è aumentato, come detto in passato, poiché in tempi di tassi crescenti i mercati penalizzano chi ha più debito. Ma non bisogna preoccuparsi di altre crisi da debiti sovrani. Sia perché i fondamentali oggi sono solidi: a differenza del 2013, infatti, la bilancia corrente è in surplus, l’Italia è produce più di quel che consuma e la posizione netta patrimoniale verso l’estero è ampiamente positiva. Sia perché la Banca centrale europea lascia capire che non permetterà, come adombrato sopra, un aumento degli spread che non sia giustificato dai fondamentali.


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