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Ursula von der Leyen

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Sembrano davvero lontani i tempi in cui il continente europeo veniva associato all’idea di fortezza. Un luogo inespugnabile, forte di una ricchezza e di uno stile di vita inaccessibile ai paesi limitrofi e vicini. Un paradiso di libertà e di benessere per quanti cercano ogni giorno con tutti i mezzi di varcare i confini alla ricerca di migliori condizioni di esistenza.

Le vicende di questi giorni probabilmente ci dicono che l’Europa – meglio, l’Unione europea – non è poi così forte e impenetrabile come l’abbiamo disegnata. Al contrario, sembra caratterizzata da una certa porosità che rappresenta la conseguenza della opzione per la democrazia e per il mercato. L’Europa è una società aperta. In virtù di questa caratteristica ha sposato la sfida della globalizzazione puntando su una apertura sempre maggiore, sulle partnership e sulla socievolezza nei rapporti tra gli stati.

Qualcuno lo ha chiamato soft power per distinguerlo dall’hard power degli Stati Uniti, o, più di recente, da quello della Cina. La verità è che la fortezza europea – forse proprio a causa di un potere ancora troppo ‘soft’ in quanto privo di capacità di sufficiente autotutela – mostra parecchie crepe. Dalle quali penetrano infiltrazioni di ogni tipo che mettono a repentaglio la grigia routine di Bruxelles.

Com’è noto è in corso un’indagine che punta alla ong Fight impunity dell’ex eurodeputato Antonio Panzeri per capire a che cosa potrebbe servire un milione e mezzo di euro. Il fascicolo della procura federale belga riguarda i reati di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio di denaro.

A quanto pare il grande corruttore sarebbe un paese straniero, il Qatar, che avrebbe cercato di comprare la disponibilità di funzionari e parlamentari europei per promuovere la sua immagine nelle istituzioni di Bruxelles, cercando di edulcorare il dibattito sul rispetto dei diritti umani in quel paese.

L’indagine si è ora allargata al Marocco, sospettato di usare i propri servizi segreti per impedire all’Ue di intromettersi nella questione dell’occupazione del Sahara occidentale da parte di Rabat e, allo stesso tempo, di ficcare il naso nella questione dei flussi migratori nella regione.

È ancora troppo presto per farsi un’idea precisa, mentre l’indagine è in corso. Intanto sappiamo che un collaboratore parlamentare ha confessato di essere il cassiere dell’organizzazione e che una vicepresidente dell’assemblea di Strasburgo è già stata sollevata dal suo incarico. In attesa di una maggiore chiarezza sul fronte giudiziario, restano comunque diversi interrogativi aperti.

Il primo riguarda lo stato della reputazione dell’Ue a seguito dello scandalo. Per la gran parte dei leader dei paesi europei il caso resta circoscritto nel perimetro del parlamento europeo, ma la verità è che il danno d’immagine di tutta la costruzione comunitaria potrebbe essere enorme. Anche perché la maggior parte dei cittadini europei non fa nessuna distinzione tra un’istituzione e l’altra. Con la conseguenza che la macchia della corruzione potrebbe sporcare non soltanto i diretti protagonisti della vicenda, ma anche l’insieme delle istituzioni europee.

Il secondo interrogativo riguarda la capacità dell’Unione di difendersi dai tentativi di infiltrazione dei paesi ostili. Oggi parliamo di Qatar e Marocco, ma nulla esclude che in passato altri paesi abbiano cercato di indirizzare l’orientamento delle istituzioni europee e che in futuro ciò possa ricapitare. “La democrazia europea è sotto attacco”, ha detto Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento. E se questa frase così drammatica potrebbe apparire dettata dalla necessità di mostrare il massimo dell’indignazione nei confronti del cosiddetto “Qatargate”, sarebbe comunque il caso di non sottovalutarla.

Oggi i tentativi emersi di infiltrazione di paesi stranieri in Europa sono quelli basati sulla corruzione dei parlamentari. Ma bisognerebbe ricordare che l’Ue è da anni sottoposta all’attacco concentrico della Russia e della Cina. Sappiamo ormai da tempo che Mosca ha cercato di alterare prima il dibattito pubblico e poi i risultati delle elezioni di alcuni paesi europei (Italia compresa), tra le altre cose sguinzagliando i suoi troll nell’universo dei social media. È molto probabile che il Cremlino sia dietro a diversi passaggi cruciali della storia europea come la Brexit. Proprio quest’anno a marzo una risoluzione del Parlamento europeo ha condannato le ingerenze straniere.

Tra gli aspetti più delicati del testo il rapporto tra alcuni partiti europei e Russia Unita, il partito di Vladimir Putin. Nella relazione sono citati appunto gli “accordi di cooperazione” tra il partito di Mosca e la Lega Nord, l’austriaco Freiheitliche Partei Österreichs, il francese Rassemblement National. Anche altri partiti europei, come il tedesco Afd, gli ungheresi Fidesz e Jobbik e il Brexit Party nel Regno Unito, avrebbero stretti contatti con il Cremlino. AfD e Jobbik avrebbero perfino lavorato come “osservatori elettorali” alle elezioni controllate dal Cremlino, ad esempio a Donetsk e Lugansk.

A tutto ciò, va aggiunto il lavorìo più che decennale di Putin per conquistare la fiducia dei paesi europei e diventare il loro principale fornitore di energia. Ancora una volta ha contato la porosità dell’Ue, ispirata dall’idea che i rapporti commerciali e la collaborazione pacifica sono il modo migliore per impedire i conflitti e allargare la sfera del benessere. Sappiamo com’è andata. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha interrotto il sogno della pace e, soprattutto, ha svelato il rapporto di eccessiva dipendenza di alcuni paesi europei (in particolare la Germania) dalle forniture energetiche di Mosca. Ultima ma non ultima la Cina.

Il gigante dell’Estremo Oriente, negli anni recenti, ha cercato di stabilire rapporti commerciali sempre più stretti con un gruppo di paesi dell’Europa orientale e balcanica al fine di aumentare la propria sfera di influenza nel vecchio continente approfittando delle divisioni e della mancanza di politiche unitarie dell’Unione europea.

L’Italia è stata una delle vittime principali di questa strategia espansionistica quando il governo di Giuseppe Conte abboccò alle offerte di aiuti (inutili e inefficienti) per fronteggiare la pandemia basati sulla cosiddetta “diplomazia delle mascherine” e, nel disprezzo delle relazioni transatlantiche, firmò l’accordo di partnership commericale sulla Via della Seta. Alla luce di questo quadro è probabile che il biennio 2021-2022 sarà ricordato come quello cruciale per una nuova consapevolezza dell’Europa. Prima, con il Next Generation Eu, l’Unione ha reagito in maniera unitaria alla crisi sanitaria ed economica provocata dalla pandemia.

Poi, di fronte alla follia espansionistica della Russia, i paesi europei hanno capito che difendere l’Ucraina – anche con le armi – era necessario non soltanto per riaffermare il diritto internazionale e difendere la martoriata popolazione locale ma anche per proteggere se stessa. Con la stessa logica è cominciata una grande iniziativa comune per rendere l’Ue sempre più autonoma da Mosca sul fronte energetico: una lotta per l’indipendenza che è ancora all’inizio e che segnerà anche le relazioni geostrategiche nei prossimi anni. Sappiamo che l’Italia ha svolto un ruolo cruciale su questi fronti grazie all’azione del governo di Mario Draghi.

Adesso che lo scandalo della corruzione entra nelle aule di Strasburgo è molto probabile che le istituzioni comunitarie e i paesi membri troveranno delle modalità per difendersi, senza rinunciare ai valori fondanti della democrazia e della società aperta. D’altra parte, anche la Commissione Santer si dimise anticipatamente per motivi di corruzione nel 1999 e l’Ue è ancora lì. Resisterà anche questa volta, trovando nuovi strumenti per continuare il suo cammino. La frase di Jean Monnet, grande architetto dell’Unione europea, per il quale l’Europa “sarà forgiata nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi”, appare ancora valida e attuale.


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