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Joe Biden e Donald Trump

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I SONDAGGI americani sono impietosi con il presidente degli Stati Uniti: a un anno dalle elezioni, Joe Biden è in svantaggio nei confronti del suo avversario di sempre (per ora potenziale, visto i numerosi capi d’imputazione a suo carico e i processi che dovrà affrontare nel 2024) Donald Trump. In quasi tutte le rilevazioni sul confronto diretto finale è indietro rispetto all’ex capo di Stato e, quel che è peggio, secondo l’ultimo sondaggio pubblicato da New York Times, perderebbe il confronto in cinque dei sei “swing States”, gli Stati che oscillano tra una presidenziale e l’altra e sono il vero campo di battaglia per la conquista della Casa Bianca. Biden per il momento non si scompone più di tanto di fronte agli umori degli americani, ma deve essere senza dubbio umiliante godere di minor popolarità rispetto a uno dei peggiori presidenti della storia d’America, un uomo che ha portato il Paese a un passo dalla crisi istituzionale accentuandone l’isolamento rispetto ai tradizionali partner occidentali e il disimpegno dal Medio Oriente.

In campo democratico c’è parecchio nervosismo e alcuni media si sono improvvisamente accorti dell’esistenza della vicepresidente, Kamala Harris, che in quattro anni ha brillato per evanescenza e modesta rilevanza politica. Un tentativo disperato e non molto convincente che non porterà da alcuna parte.

Il problema di Biden, si sa, è l’età, che nel giudizio degli elettori americani sembra avere un peso rilevante. Il presidente americano compirà 81 anni il 20 novembre e più volte in pubblico ha dato segni di cedimento psicofisico. All’interno del suo partito qualcuno pensa che dovrebbe farsi da parte, anche se il tempo a disposizione per un gesto così clamoroso è minimo, poche settimane: o entro l’anno o mai più. David Axelrod, ex consigliere di Barack Obama, ha postato su X, ex Twitter, un commento che sembra suggerire a Biden un passo indietro: “La posta in gioco di un calcolo sbagliato è troppo drammatica per essere ignorata. Solo Joe Biden può prendere questa decisione”. È un’opinione, importante, ma che non rispecchia l’intero arco politico dei democratici. Qualcuno ha voluto ricordare ad Axelrod la sua lungimiranza quando durante la campagna elettorale del 2019 definì Joe Biden “Mr. Magoo”. “Mr Magoo”, oppure “Sleepy Joe” come lo sbeffeggiava Trump, vinse con netto margine quelle elezioni. Eppure il bilancio della presidenza Biden, che ha visto una gestione più assennata dalla pandemia, un piano di aiuti pubblici in sostegno dell’economia, dell’industria e delle infrastrutture mai visto dai tempi di Franklin Delano Roosevelt, non viene preso nella dovuta considerazione nelle scelte di voto di buona parte americani, almeno non in queste settimane.

L’American Rescue Plan Act è stato un piano di stimolo da 1.900 miliardi per attenuare i contraccolpi economici e sociali della pandemia. Parte della Build Back Better Agenda, è stato però l’unico provvedimento ad essere approvato integralmente dal Congresso nella sua forma originaria dal Congresso, mentre altri capitoli rilevanti come quelli sull’ammodernamento delle infrastrutture (550 miliardi) e sulle misure di sostegno al welfare sono state spacchettate e parzialmente indebolite. Accanto a questi piani, ci sono state importanti azioni di politica industriale: il Chips and Science Act, con una dotazione di 250 miliardi, per rafforzare la ricerca e la produzione di microchip negli Stati Uniti; e infine il famoso Inflation Reduction Act che ha messo a disposizione delle imprese (americane) incentivi e agevolazioni per la transizione energetica e lo sviluppo delle rinnovabili irritando non poco i partner europei. I grandi dati – crescita e occupazione soprattutto – dicono che il presidente Biden non è stato un cattivo presidente, anzi.

Ma su scala micro le cose non sembrano essere andate così bene, almeno nella percezione di una quota non trascurabile dell’opinione pubblica. La disoccupazione resta ai minimi, la crescita dei nuovi posti di lavoro continua, sia pure a un ritmo più lento fino ad alcuni mesi fa. Però ha pesato e sta pesando la perdita del potere d’acquisto in seguito alla fiammata dell’inflazione, alla quale ha contribuito in maniera importante il piano di stimolo fiscale e che all’inizio fu erroneamente definito dalla Fed un fenomeno “temporaneo”. Così Biden sta perdendo terreno nei serbatoi elettorali a quali aveva attinto con successo nel 2019, gli afroamericani e gli ispanici, mentre i sondaggi più recenti indicano in Trump una maggiore competenza economica rispetto all’attuale presidente. Le priorità, inoltre, sembrano essere altre, dall’ordine pubblico all’immigrazione, temi sui quali viene preferita l’intemperanza di Trump e che costringono anche Biden ad adottare posizioni controverse (come la decisione di avviare la costruzione di una parte di muro lungo il confine con il Messico) per un democratico.

Al momento l’elettorato femminile sembra quello più ben disposto nei confronti del presidente: un democratico rappresenta per la maggioranza una migliore e più solida garanzia a tutela dei propri diritti. Se il fronte interno è complesso, quello internazionale sembra proibitivo. La crisi in Medio Oriente, con lo scoppio del conflitto su larga scala tra Israele e Hamas, può avere conseguenze imprevedibili per l’intera Regione e portare gli americani a nuovi e indesiderati impegni militari, oltre che diplomatici. L’America di Biden sta cercando di mediare tra l’appoggio a Israele e il difficile contenimento di quest’ultimo nella sua offensiva a Gaza, mentre sul fronte ucraino sarà sempre più difficile convincere un Congresso riottoso ad approvare nuovi aiuti militari per sostenere la causa di Kiev contro l’aggressione russa. In ottobre Biden ha tenuto un discorso coraggioso alla Nazione sulle sfide internazionali e le responsabilità degli Stati Uniti e ha tracciato un parallelo tra le due crisi internazionali: Putin e Hamas hanno una cosa in comune, ha detto, vogliono l’annientamento di due Stati che confinano con loro. I nemici di Biden, interni ed esterni, sono tutti quasi tutti inafferrabili. Di fatto non esiste più un Partito repubblicano, non quello che eravamo abituati a conoscere, criticare o apprezzare negli ultimi decenni.

Di afferrabile ci sarebbe Donald Trump, che stando alle accuse e ai processi pendenti, in caso di candidatura sarebbe costretto a passare più tempo nelle aule dei tribunali che non ai comizi elettorali. Però c’è una preoccupante maggioranza che lo percepisce come una vittima, un agnello sacrificale e non l’ispiratore dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2020. Se dovesse essere Biden vs Trump sarà una campagna brutale, che farà impallidire quella del 2019.


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