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“RIMETTEREMO in piedi l’Argentina e tra 25 anni saremo una potenza mondiale, la faremo finita col modello peronista che ha impoverito il Paese”: è la promessa un po’ clownesca di Javier Milei – che si autodefinisce anarco-capitalista – nel suo primo discorso dopo la vittoria al ballottaggio presidenziale in Argentina. Il leader del partito “La Libertad Avanza” (Lla) a partire dal 10 dicembre sarà il nuovo presidente della repubblica sudamericana, dopo un’ascesa dirompente che in pochi anni gli ha permesso di sbaragliare i due partiti tradizionali che hanno governato il Paese nei 40 anni di democrazia dalla caduta della dittatura militare, nel 1983.

L’ascesa al potere di Milei non deve stupire, vista la condizione economica dell’Argentina dominata da un caos che ha origini lontane. L’Argentina è già andata in default sul suo debito estero nove volte nell’arco di due secoli (nel 1827, 1890, 1951, 1956, 1982, 1989, 2001, 2014 e 2020). Un decimo default sembra quasi certo, dato il grado di svalutazione del peso, la moneta argentina: è difficile pagare i debiti denominati in dollari quando la propria valuta è in caduta libera.

All’inizio del secolo scorso l’Argentina era uno dei Paesi più ricchi del mondo. Il suo reddito procapite si collocava tra i 10 più alti del pianeta, ampiamente superiore nel 1913 a quello di Italia e Spagna: per questo attirava enormi flussi migratori dall’Europa ferita dalle guerre mondiali. Ma nel 1947 Juan Domingo Peron conquista il potere e impone una politica economica populista e anticapitalista. L’economia argentina comincia una progressiva perdita di competitività e una stasi della crescita. Tra le cause l’uso sconsiderato della spesa pubblica (e della banca centrale per finanziarla). In Argentina, la spesa pubblica ha drenato dal settore privato risorse importanti per la crescita verso misure improduttive. Il circolo vizioso del populismo argentino ha sempre più attinto al finanziamento diretto della propria banca centrale, chiamata a stampare nuova moneta per coprire i deficit pubblici frutto dell’assistenzialismo scriteriato e corrotto dei governi che si sono succeduti negli anni. Le conseguenze sono state nefaste. La spesa improduttiva non ha spinto la crescita economica. L’eccesso di moneta ha determinato una inflazione cronica sempre più alta. La caduta del potere d’acquisto delle famiglie ha impoverito la gran parte della popolazione.

Per rispondere all’impoverimento crescente, i governi populisti hanno ampliato ulteriormente la spesa pubblica in deficit, emettendo ancora più moneta. Il risultato finale è il passaggio a un sistema economico in piena iperinflazione, nel quale è impossibile il calcolo economico da parte delle imprese, il sistema smette di funzionare e la povertà dilaga. Come spiegano gli economisti del “lavoce.info”, dopo il default del 2020, quando il debito delle amministrazioni centrali era pari al 103,8 %, il Paese non ha più potuto finanziarsi sui mercati internazionali, costringendo la banca centrale argentina a stampare pesos per coprire la spesa pubblica. Dal 2020 il debito delle amministrazioni centrali si è ridotto ma è comunque rimasto su valori elevati. Nel 2022 ha raggiunto l’85,2% del Pil, di cui il 66,9% in valuta straniera mentre il 33,1% in valuta nazionale. Nel secondo trimestre del 2023 questo è pari all’88,4% del Pil. Il peronismo di sinistra – che governato con brevi pause l’Argentina da vent’anni – ha portato l’inflazione al 143% annuo, mentre il Pil scende quest’anno del 2% e il tasso di povertà esplode al 40%. In pratica, quasi una persona su due in Argentina vive al di sotto della soglia di povertà. Ecco il risultato delle politiche di deficit pubblico senza controllo finanziate dalla banca centrale.

In questo contesto Milei ha avuto buon gioco a proporsi all’Argentina con una proposta populista di segno opposto: un inno all’ultraliberismo che non soltanto resta molto lontano dalla cultura del Paese, ma sembra difficile da realizzare in concreto. “Oggi finisce il modello dello Stato che impoverisce e benedice solo alcuni, mentre la maggioranza degli argentini soffre. Oggi torniamo ad abbracciare l’idea della libertà”, ha affermato non a caso il vincitore dopo la pubblicazione dei risultati ufficiali: il 55,69% contro il 44,3% del candidato peronista Sergio Massa. Tuttavia, il voto per Milei è in gran parte un voto “contro” uno status quo in disintegrazione, piuttosto che un improvviso abbraccio del radicalismo del libero mercato tra gli argentini. Milei ha fatto breccia nel popolo argentino in qualità di veemente polemista televisivo: i suoi feroci improperi contro “la casta politica corrotta” e i suoi discorsi antisistema lo hanno collocato sulla scia del populismo di destra.

Anche la sua immagine caricaturale – per via della sua eccentrica pettinatura, il Wall Street Journal lo ha definito “come un bue muschiato incrociato con Ozzy Osbourne” – ha fatto la sua parte nella costruzione del personaggio. Così, il salto dalla televisione alla politica è risultato naturale tanto quanto il sostegno e l’apprezzamento di un altro campione del populismo americano come Donald Trump. Resta da verificare se il suo radicalismo libertario potrà effettivamente realizzarsi visto che in Parlamento il partito del neopresidente non gode della maggioranza assoluta. I primi comizi di Milei erano animati da una furia iconoclasta: a volte si è presentato imbracciando una motosega per chiedere il taglio della spesa pubblica e la vendita delle principali aziende statali.

Tuttavia, in mancanza dei numeri sufficienti e di una propria classe dirigente, Milei è stato obbligato a tessere un’alleanza strategica con il centrodestra dell’ex presidente Mauricio Macri in vista del ballottaggio. La sua ricetta di una drastica e rapida riduzione del deficit e del debito pubblico attraverso drastici tagli alla spesa per ora resta ferma, ma il neoeletto ha già fatto dietrofront sulla privatizzazione di istruzione e sanità promettendo un piano di riduzione degli ammortizzatori sociali graduale. Allo stesso modo, restano da verificare le due promesse più estreme e populistiche di Milei: la chiusura della banca centrale e la dollarizzazione del sistema economico, ovvero l’adozione del dollaro come moneta a corso legale in Argentina. Entrambe le misure quasi certamente si tradurrebbero in un boomerang per l’economia del Paese (anche se perfino il quotidiano statunitense Axios ammette che nulla, nemmeno la dollarizzazione, può essere peggio del deficit stratosferico ereditato dal peronismo). In più, l’ingresso dell’Argentina nel gruppo dei Brics pone un problema di coerenza con l’obiettivo del presidente brasiliano Lula e di quello cinese Xi di costruire un sistema dei cambi alternativo al dollaro con l’effetto di contribuire a fare di quel gruppo geopolitico un’accozzaglia caotica di interessi divergenti. Ma questo è il populismo, bellezza!


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