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Da sinistra: Charles Michel, Xi Jinping e Ursula von der Leyen al 24° vertice Cina-Ue

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D’accordo sulla necessità di ridurre gli squilibri commerciali, ma nessuna misura concreta sul come. Cina e Unione europea, giovedì al loro primo incontro in persona dopo quattro anni, si sono ritrovati per smussare le asperità retoriche che hanno accompagnato le relazioni economiche e politiche più recenti.

Due sono gli elementi chiave che stanno ridisegnando il nuovo ordine bilaterale: la politica Ue di riduzione del rischio nei confronti di Pechino, il cosiddetto de-risking; e l’intensificazione dei rapporti politici ed economici cinesi con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, mai apertamente condannata dal presidente Xi Jinping.

In realtà la strategia europea di riduzione del rischio, della quale si parla insistentemente da oltre un anno, ha un’origine precisa e muove i primi passi nel 2016 in Germania. E’ il momento in cui un’azienda tedesca, Kuka, leader mondiale in un particolare segmento della robotica per l’industria, viene acquisita dal colosso cinese degli elettrodomestici Midea per 4,7 miliardi di euro.

Fu un’acquisizione clamorosa che per ragioni strane o ancora un residuo autocompiacimento, nessuno in Germania, sia a livello politico sia a livello industriale, seppe o volle contrastare.

Non ci fu un “cavaliere bianco” e non ci furono ostacoli da parte delle autorità governative. Salvo poi accorgersi che un gioiello della tecnologia made in Germany era finito sotto il controllo della Cina, che nel frattempo aveva messo a punto la sua famosa strategia “Made in China 2025” (MIC25) che definiva dieci settori industriali hi-tech nei quali raggiungere la leadership mondiale. Uno di questi era la robotica. E non a caso uno studio della Fondazione Bertelsmann ha evidenziato che il 64% delle acquisizioni cinesi in Germania compiute tra il 2014 e il 2017 coinvolgevano aziende nei settori definiti prioritari dalla MIC25.

Da allora in avanti la consapevolezza si è trasferita ad altri Paesi, sono state inasprite varie legislazioni nazionali sulla cessione di imprese considerate strategiche a Paesi terzi, l’Unione europea ha messo a punto un sistema di monitoraggio di queste operazioni e si è arrivati al documento formulato dalla Commissione UE nel 2019, nel quale la Cina veniva definito per la prima volta un concorrente sistemico. Il paper europeo arrivava in realtà alcuni mesi dopo uno simile pubblicato dalla BDI, la Confindustria tedesca, che rappresenta soprattutto gli interessi delle medie imprese, il cosiddetto Mittelstand, spina dorsale della manifattura hi-tech della Germania.

Poi sono arrivati gli shock esogeni – pandemia e invasione russa dell’Ucraina – che hanno ulteriormente rafforzato questa consapevolezza, anche a fronte di numeri impressionanti per l’Europa: nel biennio 2021-2022 il deficit commerciale dei Ventisette nei confronti di Pechino è raddoppiato sfiorando l’anno scorso i 400 miliardi di euro.

La durissima risposta cinese al Covid-19, in termini di lock-down e paralisi dell’attività economica, ha messo in ginocchio la domanda interna, per cui Pechino ha scelto nuovamente di accelerare sulle esportazioni sviluppando un preoccupante (per l’Europa) eccesso di capacità produttiva in settori legati alle rinnovabili e alla transizione energetica.

Nel frattempo, a causa della persistente guerra economico-tecnologica ingaggiata da anni con gli Stati Uniti, la Cina ha adottato una serie di importanti misure restrittive e di controllo sull’operatività delle aziende straniere sul suo territorio.
In agosto, ad esempio, ha deciso di sottoporre ad autorizzazione preventiva l’export di 7 derivati del germanio e del gallio, componenti chiave per svariate produzioni hi-tech.

Nonostante la retorica suadente del presidente Xi Jinping nell’accogliere gli ospiti europei (il presidente del Consiglio UE Charles Michel, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il commissario al Commercio Valdis Dombrovskis) è difficile al momento cogliere il punto di caduta delle relazioni economiche tra i due grandi blocchi. Nel momento in cui gli Stati Uniti chiudono il proprio mercato e la propria tecnologia, il made in China ha più bisogno che mai di sbocchi internazionali. Probabilmente non a questi livelli e non in un’Europa che sta cercando a fatica di accorciare le filiere produttive che si sono mostrate più a rischio durante le strozzature subìte in occasione dei lockdown.

Pechino è irritata per l’inchiesta avviata dall’Antitrust europeo contro gli aiuti di stato all’industria cinese dei veicoli elettrici, che potrebbe avere come esito l’imposizione di tariffe decisamente più elevate di quelle attuali e in linea con quanto stanno già facendo gli Stati Uniti. E non ha di certo gradito le raccomandazioni della Commissione UE sull’individuazione di settori strategici da sottoporre a una vigilanza rafforzata per conseguire l’obiettivo dell’autonomia strategica: intelligenza artificiale, semiconduttori avanzati, tecnologie quantistiche e biotecnologie.

Tutto in divenire, in direzione opposta a quella intrapresa dall’Europa nei confronti della Cina durante il periodo 2000-2015.
Riduzione del rischio e autonomia strategica sono in divenire e per ora l’esempio più concreto del famigerato de-risking, non privo a sua volta di possibili contraccolpi politico-economici, è la decisione italiana di non rinnovare il Memorandum d’Intesa sulla Via della Seta firmato con Pechino nel 2019.


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