Luca Zaia e Attilio Fontana
5 minuti per la letturaQuesta crisi di governo pretesa da Salvini, ma – così sembra – a condizioni di correttezza istituzionale imposte dal premier, prova e conferma la sua capacità di dettare l’agenda, di disporre del Paese ammaliato dal pitone estivo in mutande e ciabatte che ormai chiede sul bagnasciuga «i pieni poteri». Ad essere freddi qualcosa – e molto – cambia se si riflette su questo sudato esagitato uomo solo al comando, best performer dei sondaggi, abile a giocare sul filo di assurdi assunti assiomatici per evitare temi scabrosi e imporre quelli a lui comodi a tanti belanti se non servizievoli commentatori o mefistofelici aruspici.
Ci si scorda, ad esempio, che, senza pagare pegno, non risponde dei suoi debiti in sofferenza, che rifiuta gli inquietanti interrogativi evocati dalla nube di rubli incombente. Ma soprattutto ci si scorda che quando lo si parametrasse agli esiti di un concreto “bilancio di missione” , il suo rating supererebbe di poco quello del classico guappo e’ cartone napoletano, e ciò solo grazie al suo potere di disporre del trito e macabro rituale della battaglia navale sulla pelle degli altri.
IL DISASTRO
Credo che si dovrebbe riflettere sulla crisi al di là di quello che essa vuole sembrare ed essere rappresentata come una scelta opportunistica di tempo per piazzare la scommessa dei pieni poteri. Essa nasconde infatti una verità, alla luce del sole che di questi tempi nessuno sembra voler vedere e proclamare. Eppure una verità che in una campagna elettorale dovrebbe essere al centro del dibattito per i suoi effetti sui destini del Paese.
Basta leggere il contratto e ricordarsi che l’unico e solo impegno definito assolutamente prioritario dal sedicente Governo del cambiamento era quello di tenere a battesimo il rivoluzionario regionalismo a geometria variabile. Un impegno miseramente naufragato (e non per tardivo scetticismo del M5S!).
E’ incredibile che in tanto clamore sia sfuggita questa fondamentale motivazione. L’ enfasi sull’atteggiamento speculativo della scelta di por fine al governo è un comodo schermo con il quale Salvini cela il suo fallimento sul fronte della cosiddetta autonomia rafforzata. Silurata ed affondata dall’operazione verità avviata da queste colonne, dalla deprecata Casta, dal movimento di corpi sociali quali i sindacati, dopo lunghi mesi nei quali si sono sprecate minacce, e poi suadenti tentativi più o meno truffaldini per circuire il più che docile partner ora é chiaro che solo il popolo conferendo “i pieni poteri” in un livido domani potrebbe fare contenti i veri danti causa delle velleità sovraniste (nazionali) del Capo e (regionali) di Gallo e Paglietta.
Ben prima e più della Flat tax, il confronto dal quale si sfugge è infatti proprio quello del quale Salvini di fronte al fallimento non intende parlare. Ne parleranno e con virulenza Lombardia, Veneto e l’Emilia Romagna (che potrebbe presto vestire i panni del Nord leghista).
Come sarebbe la Repubblica di Salvini con i pieni poteri? E’ abbastanza semplice figurarlo: una confederazione di regioni che si proclamano virtuose (dalla Liguria al Friuli) che – a norma dell’articolo 117 della Costituzione – con leggi regionali concordano organi di governo comuni per gestire (secondo le più recenti pretese) risorse pari a quella spesa storica che di fatto garantisce loro da anni un abnorme privilegio nell’uso delle risorse erariali. Residuerà un Centro – Sud con una Toscana incerta se inseguire il Nord, che pure la vorrà arruolare, o nobilitare con la sua forzata presenza il derelitto Centro-Sud che attende a breve Marche ed Umbria in rapido avvicinamento.
LA CLASSE DIRIGENTE
Se tutto ciò avvenisse, con il conferimento di funzioni e risorse collegate, lo Stato centrale diverrebbe un curioso paguro senza peso ed autorità ed il Capitano sarebbe non un re ma un vice re… travicello che, conquistato il Sud, potrebbe al più concordare con la confederazione del Nord qualche privilegio in cambio di un controllo social-demagogico della Provincia subordinata.
E’ un fatto evidente che la confusa capacità di leggere e trarre lezione da indizi sempre più chiari e severi è il retrostante che guida questa prospettiva di autonomia extra-costituzionale verso la disgregazione del sistema Italia. Lo testimonia il crescente nervosismo di governatori abbastanza improbabili per senso della storia e capacità di vaticinare un futuro al loro progetto. Lo spazio del quale godono è loro garantito dal vuoto della politica, dalla capacità di imbonitore del Capitano e da una tipica intellighenzia sia al Nord che al Sud.
Al Sud assistiamo – assuefatti – alle fatue reazioni dandy di intelletuali-benaltristi d’ occasione e per mestiere- che di questa vicenda non vedono la battaglia in atto ma lamentano come improprio e petulante il pretendere di conoscere e discutere “volgari questioni di soldi”, quali le regole sul governo delle risorse che investono diritti e doveri di cittadinanza. Ovviamente il tema è chiamare alla sbarra la “classe dirigente” che ormai – ma non se ne sono accorti – è morta e sepolta da queste parti risucchiata dalla patologica propensione estrattiva brillantemente imposta al Sud dalla miope egemonia del Nord.
LA SCENEGGIATA DI ZAIA E FONTANA
Quanto al Capitano, fedele esecutore della messa in scena di Zaia e Fontana sulle sorti magnifiche e progressive della “loro” autonomia, egli interpreta, recitando il rosario, l’ inconsapevole angoscia del Nord che più vede allontanarsi l’ Europa, tanto più preme e chiede trasfusioni al Sud per tenere il passo della fallimentare ventennale rincorsa che non lo ha mai schiodato da una risicatissima crescita.
E’ perciò di estrema importanza rafforzare l’ attenzione e promuovere proprio ora la piena attuazione dell’ operazione verità che ha consentito di arrestare finora quella che sembrava una facile esecuzione della priorità di contratto.
Tutto ciò per evitare che dopo cinque secoli, in ossequio a Vico, rinasca il vicereame del Mezzogiorno tributario non più di una famelica Spagna, impero al tramonto, ma di un annaspante Nord in declino.
La desertificazione umana ed industriale del Sud, non deve infatti far dimenticare la parallela deindustrializzazione di un Nord che si meridionalizza e che, invece di interrogarsi, scomoda Lincoln per lamentare che “… il Nord è stanco di correre con le catene ai piedi”. Sarebbe il caso di guardare meno ai piedi e di usare più il cervello.
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