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Il presidente Coldiretti, Ettore Prandini

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Agricoltura in prima linea nel Piano Mattei. In un certo senso il settore ha anche anticipato la linea sostenuta dal Governo per un nuovo modello di cooperazione nei Paesi africani finalizzato al loro sviluppo. Anche con l’obiettivo di ridurre la pressione dei flussi migratori e la drammatica scia di morti. Coldiretti e Filiera Italia hanno affiancato il Governo sin dalle prime battute delle iniziative che hanno portato alla messa a punto del Piano approvato ieri dal Consiglio dei ministri.

Non solo. Già nel 2019 Bonifiche Ferraresi, la più grande azienda agricola italiana, e Coldiretti avevano sottoscritto un accordo con l’Eni finalizzato soprattutto alla formazione dei giovani africani, in particolare nel Ghana. D’altra parte l’agricoltura italiana ha il know how per sostenere un processo di sviluppo dell’agricoltura del Continente africano. Da tempo – ha spiegato il consigliere delegato di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia che ha partecipato a molte missioni governative – con Coldiretti abbiamo messo in campo “una forma di internazionalizzazione del modello produttivo italiano, un sistema che si pone come alternativa a quelli che sfruttano terre e comunità di altre aree del mondo”.

Con questo spirito le due organizzazioni, che rappresentano le imprese agricole e le principali industrie alimentari del Paese, hanno già realizzato importanti missioni in Nord Africa e in Africa Subsahariana e nei Balcani per contrastare l’insicurezza alimentare, per trasferire il know how tecnologico, e avviare piani di formazione e partecipare così al processo di valorizzazione degli agricoltori locali con l’obiettivo di creare localmente il massimo valore aggiunto nel rispetto di territorio e distintività.

Perché – questa la filosofia di Coldiretti e Filiera Italia – se si vuole arrivare al traguardo di fame zero nel 2030 bisogna partire da una nuova forma di intervento in quei Paesi. E chi più dell’Italia, patria della qualità e sicurezza alimentare, ma anche dell’agricoltura più green e sostenibile, può spingere verso un riscatto agricolo le aree tra le più povere e fragili del mondo? Che tra l’altro sono state le più penalizzate dall’interruzione delle esportazioni di grano e derrate alimentari con lo stop dell’accordo tra Russia e Ucraina, per garantire i traffici sul Mar Nero, annullato da Mosca.

Un primo incontro concreto è avvenuto, qualche mese fa, in Tunisia in occasione della missione italiana sulla sicurezza alimentare a cui la Coldiretti ha partecipato a fianco dei ministri degli Affari Esteri Antonio Tajani, dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare Francesco Lollobrigida e del Lavoro Marina Elvira Calderone. Perché i temi sono complessi e coinvolgono la produzione, l’innovazione, ma anche la formazione che è l’elemento che può fare la differenza.

“Proponiamo – ha spiegato il presidente di Coldiretti, Ettore Prandini – un modello opposto a quello predatorio e speculativo di altri Paesi, basato invece sulla valorizzazione della rete delle tante piccole aziende locali, sul trasferimento di tecnologie di precision farming, smart irrigation, digitalizzazione finalizzato a produrre di più ma con minore risorse”. E la formazione è parte integrazione dell’azione per due motivi.

Il primo è di dare agli agricoltori locali le giuste competenze per un’attività efficace e produttiva e quindi di metterli in condizione di generare valore in patria. Il secondo è di qualificare figure professionali che, attraverso flussi programmati e regolari di immigrazione, possano essere messe a disposizione delle aziende italiane che hanno sempre più bisogno di manodopera che deve però rispondere ai requisiti di un settore agroalimentare sempre più all’avanguardia. Insomma è un concetto diverso di cooperazione che non si limita a dare risorse, ma che vuole anche sapere come sono stati investiti i soldi e a quali risultati hanno portato.

Sono stati già lanciati ponti oltre che in Tunisia, anche in Somalia ed Egitto dove si sono create le condizioni affinché le aziende leader del Made in Italy, rappresentate in Filiera Italia e Coldiretti, possano divenire un partner centrale con la fornitura di macchinari, tecnologia, sementi e conoscenze ma anche prodotti alimentari di base, dal grano al couscous, necessari per sfamare le popolazioni. In Africa insomma si deve cambiare registro.

Per anni le terre sono state acquistate a pochi soldi soprattutto da gruppi cinesi e russi che le hanno sfruttate senza però favorire la creazione di una rete di piccole aziende locali. La Coldiretti ha invece le carte per porre le basi di una nuova agricoltura. Basta mutuarla da quella “riforma agraria” voluta fortemente negli anni Cinquanta dalla Coldiretti, allora guidata da Paolo Bonomi, che ha trasformato i mezzadri, in alcune aree paragonabili agli emigranti di oggi, in piccoli imprenditori. Proprietari magari di fazzoletti di terra, ma che hanno costituito la base per l’agricoltura evoluta che c’è oggi nel nostro Paese e che è un modello nel mondo.

Anche allora spesso i mezzadri italiani fuggivano dalla fame all’estero. Quello “firmato” da Coldiretti è un modello che ha funzionato e che può funzionare oggi con gli schiavi dell’era dell’intelligenza artificiale. “E’ importante – ha ribadito Prandini – favorire filiere di prodotti locali destinati a soddisfare il fabbisogno alimentare del territorio anche attraverso la creazione di mercati contadini a chilometri zero secondo il modello promosso da Campagna Amica con la World Farmers Market Coalition”. Perché la vendita diretta, che è stata una svolta per molti contadini italiani, lo può diventare anche per i piccoli produttori africani.

L’agroalimentare che vale il 40% del Pil, come ha riconosciuto in un suo intervento al recente Villaggio Coldiretti a Roma, il ministro Tajani, svolge un ruolo diplomatico importante nel mondo ed è strategica per la realizzazione di un sistema agricolo fiorente in Africa. Anche i giovani imprenditori di Coldiretti sono in prima linea su questo fronte. Il neo presidente Enrico Parisi ha partecipato al summit mondiale delle organizzazioni degli agricoltori in Uganda e Ruanda ed è convinto che solo da uno stretto contatto con i giovani di quei Paesi possa arrivare un fattivo contributo alla gestione dell’immigrazione.

Le popolazioni africane hanno esperienza nella lavorazione dei campi e nell’allevamento e se formate adeguatamente potrebbero rappresentare anche una risorsa per ripopolare le aree interne del nostro Paese dal cui abbandono derivano anche molti dei guasti territoriali che, proprio in questi giorni, con gli eventi meteo estremi si stanno drammaticamente riproponendo. Per questo l’agricoltura oltre che accendere una nuova speranza tra popolazioni piegate dalla povertà, può anche offrire opportunità concrete di inserimento nel tessuto produttivo italiano.


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