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Il toto-scommesse impazzava ieri a Bruxelles, dove è cominciato l’Ecofin straordinario sulla riforma del patto di stabilità. Il commissario Ue all’Economia, Paolo Gentiloni, ha azzardato un cauto 51% di possibilità. La presidenza spagnola un po’ di più. Il tedesco Lindner addirittura aveva azzardato un 90% di punti sui quali l’intesa era a un passo.

Mentre, per i finlandesi, le possibilità di un’intesa erano praticamente nulle. Fatto sta che la lunga maratona notturna di Bruxelles è stata preceduta da una fittissima rete di incontri bilaterali e documenti informali per riuscire a ritrovare il bandolo della matassa. Mentre il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, puntata i piedi sul capitolo degli investimenti da scorporare dal calcolo dei deficit spiegando, a tutti i suoi interlocutori, che l’Italia non firmerà un accordo basato su regole che non può rispettare arrivando anche ad esercitare il diritto di veto sulla proposta di riforma.

La tensione resta molto alta anche perché in gioco ci sono i bilanci di almeno 8 Paesi che potrebbero trovarsi già nel 2024 sotto la spada di Damocle di una procedura per deficit eccessivo: Belgio, Spagna, Francia, Italia, Lettonia, Malta, Slovenia e Slovacchia. Era stato proprio il ministro dell’Economia di Parigi, Bruno Le Maire, a sparigliare le carte proponendo una nuova ipotesi di accordo che, in parte, raccoglierebbe anche le posizioni italiane. Cioè: ridurre dallo 0,5 allo 0,3% lo sforzo strutturale di bilancio annuale imposto ai Paesi con un deficit oltre il 3% quando questi di impegnano a fare investimenti e riforme strutturali nelle aree raccomandate dall’Ue.

Che, guarda caso, corrispondono anche a quelle chieste a gran voce dall’Italia: digitale e green, oltre alle spese per la difesa sulle quali si sarebbe già trovata un’intesa. Ci sarebbe, insomma, un margine ulteriore dello 0,2% che alleggerirebbe i percorsi di rientro dal deficit. Una proposta che Parigi considera come una sorta di “linea rossa” e che, invece, non convince per niente la Germania.

La doccia gelata sulla proposta Le Maire è arrivata, infatti, dal ministro delle finanze tedesche, Christian Lindner, che ha tagliato corto: “Non penso che cambiare le regole delle procedure per deficit eccessivo sia necessario”. Meglio lasciare le cose come erano già state definite nella prima ipotesi di compromesso elaborata dalla presidenza di turno dell’Ue spagnola. Punto e a capo.

La verità è che quel nuovo patto di stabilità e crescita che, dopo oltre 25 anni, avrebbe dovuto restituire agli Stati piena scelta sulle politiche fiscali, disegnando piani di spesa nel medio periodo, purché garantiscano un rientro del debito e del deficit, è ancora un traguardo difficile. L’ambizione iniziale era quella di semplificare le regole, trasformare la norma del 3% in un obiettivo da raggiungere con piani su misura per ogni singolo Stato, un modo anche per fare tesoro dell’esperienza del passato e di tornare alle vecchie regole in un mondo completamente diverso sia dal punto di vista economico sia, soprattutto, da quello geopolitico.

Invece, accanto all’unico parametro dei piani di spesa, si sono via via aggiunte “salvaguardie”, soprattutto da parte dei Paesi nordici e la strada per arrivare ad una riforma effettivamente condivisa si è complicata. Il commissario europeo all’Economia, Gentiloni, ha ribadito anche ieri la necessita di “evitare il rischio di complicazioni eccessive”, puntando a trovare un equilibrio “tra consolidamento e sostegno agli investimenti”.

E, invece, fra clausole di salvaguardia e nuovi parametri, il compromesso si è trasformato in un esercizio difficile da gestire. Con i tedeschi, in prima linea, decisi a introdurre un cuscinetto dell’1,5% di deficit per avere un margine di “resilienza” sufficiente a contrastare eventuali shock economici, sia pure in periodi “normali” e non di crisi dell’economia. Per l’Italia il sacrificio sarebbe stato pesantissimo, considerato che un punto di deficit vale circa 20 miliardi di euro. Il testo di compromesso preparato dagli spagnoli prevede, in sostanza, due articoli aggiuntivi, il 6bis e il 6ter, che riguardano le “salvaguardie” per il debito e il deficit chieste soprattutto dai tedeschi (ma con l’appoggio di olandesi e paesi nordici).

La proposta originaria della Commissione era incentrata su due punti: quando il debito pubblico è superiore alla soglia di Maastricht del 60%, veniva indicato un percorso di aggiustamento di bilancio “su misura” per ciascuno Stato membro di quattro anni (o di sette anni se vi sono riforme e investimenti nei settori raccomandati dall’Ue). Il percorso di aggiustamento, deciso tenendo conto di un’analisi della sostenibilità del debito, si basava su un solo indicatore: quello della “spesa primaria netta”, che non potrà aumentare più del tasso di crescita effettivo registrato ogni anno dal paese in questione.

Il secondo punto della proposta della Commissione era la regola del deficit: per i paesi con un rapporto deficit/Pil oltre il 3% era previsto uno sforzo strutturale di bilancio apri allo 0,5% del Pil all’anno per ridurre il disavanzo. A questa struttura estremamente semplificata (soprattutto rispetto al Patto di stabilità esistente, che non è mai stato pienamente applicato), la proposta di compromesso spagnola ha aggiunto, tra l’altro, un obbligo di riduzione del debito/Pil di almeno un punto percentuale per i paesi (come l’Italia) con un indebitamento superiore al 90% del Pil, e di almeno mezzo punto percentuale per gli Stati membri con rapporto debito/Pil tra il 60 e il 90 per cento.

Inoltre, per i paesi con un tasso debito/Pil sopra il 60% e/o con un deficit/Pil sopra il 3%, il testo di compromesso spagnolo prevede una doppia clausola di salvaguardia aggiuntiva: la continuazione del percorso di riduzione del disavanzo anche quando è raggiunta la soglia del deficit/Pil al 3%, in modo da creare un “margine di resilienza” pari a 1,5 punti percentuali di Pil (in sostanza, invece del 3%, l’obiettivo per il deficit/Pil diventerebbe l’1,5%, ma questo solo “in circostanze economiche normali); l’obbligo di ridurre ogni anno il saldo di bilancio primario strutturale dello 0,3 o 0,4 per cento durante i percorsi di aggiustamento di quattro anni e dello 0,2-0,25 per cento durante i percorsi di aggiustamento di sette anni (le percentuali suggerite potrebbe essere modificate).

Queste salvaguardie aggiunte nel compromesso sono state sostanzialmente accettate anche dalla Francia, che però propone, in compenso, di diminuire di due decimi di punti, dallo 0,5 allo 0,3 per cento, lo sforzo strutturale di bilancio annuale imposto ai paesi con un deficit/Pil oltre il 3%, quando questi paesi si impegnano a fare investimenti e riforme strutturali nelle aree raccomandate dall’Ue. Una proposta sulla quale la Germania continua a dire di no. La notte è lunga e non è detto che possa portare il consiglio giusto per arrivare ad un accordo.


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