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Lasciate perdere le dichiarazioni di leader nazionali, di vincitori e perdenti locali: è roba più o meno di repertorio, retorica per i media. Aiutano fino ad un certo punto le pur importanti analisi tecniche su variazioni e flussi del consenso. Il tema vero in politica è sempre il significato da dare a quanto è accaduto in questa tornata di elezioni amministrative.

E allora proviamoci. Il primo punto è che queste elezioni hanno avuto un significato più di tendenza del sentimento pubblico (nazionale) che di radicamento nelle realtà amministrative. Almeno per le città maggiori, tranne il caso di Milano, c’era poco da giudicare sulle capacità di governo dei candidati, personaggi nuovi o comunque marginali come “leader” (significa: guide) delle rispettive comunità cittadine. Hanno pesato molto di più i riflessi di scelte demagogiche assunte a livello nazionale. La dissennata campagna propagandistica di Salvini e Meloni alla rincorsa di quella che pensavano fosse la “pancia” del paese ha delegittimato un centrodestra che ha raccolto un doppio frutto avvelenato: un restringimento del suo perimetro di consenso e una spinta di gran parte del paese verso il rifiuto della politica da talk show, come si è visto con l’esplosione dell’astensionismo.

Questo ci consegna una nuova geografia del consenso politico? Andiamoci piano, perché la monodirezionalità del cambiamento fa piuttosto pensare al ripetersi di quella che in politica si definisce come la legge del pendolo: ad una fase il cui il pendolo va a destra, ne segue una in direzione opposta e così via di seguito. È la legge che viene anche definita del bipolarismo, un quadro che è piaciuto molto in passato e oggi continua a piacere a Letta e ad una parte dei suoi consiglieri. Il fatto è che nel nostro caso il pendolo si muove troppo in fretta e in maniera troppo radicale, provocando ogni volta quello che viene presentato come un “terremoto”. In realtà sarebbe meglio considerare quel che avviene come il cosiddetto sciame sismico, cioè una serie di scosse che si susseguono senza poter dire come andrà la prossima.

In genere invece i politici che vincono in una fase tendono ad immaginarsi di avere raggiunto un risultato stabile. È quel che è accaduto a Salvini, il quale si è trascinato dietro la Meloni, di fronte ai risultati del 2018 inanellando poi una serie di errori e sconfitte. È quanto dovrebbe avere davanti Letta: quando le vittorie sono troppo grandi, dipendono più da debolezze dell’avversari e da circostanze particolari che da propri meriti eccezionali e duraturi.

Nel nostro caso l’interpretazione di quanto è accaduto con queste amministrative si rifletterà non tanto su come andranno le prossime elezioni politiche, perché in questa fase di scosse sussultorie continue è arduo immaginare come si orienterà l’opinione pubblica, quanto piuttosto su come verrà organizzato il sistema elettorale. Perché qui sta un nodo importante del nostro problema politico.

L’illusione che questo successo del PD sia dovuto alla scelta del cosiddetto “campo largo” può portare alla tentazione di insistere col bipolarismo maggioritario fino al limite di tenersi l’attuale legge elettorale. In realtà non è la grande alleanza che ha fatto vincere il PD, perché l’apporto di M5S è stato poco rilevante tranne rari casi (in due importanti, Torino e Milano, l’alleanza non c’era neppure). Piuttosto si dovrebbe ricordare che la logica del campo largo costringerà a spartirsi i candidati nell’uninominale col bilancino di coalizioni costruite a tavolino, dovendo cedere a candidati di bandiera che non raccolgono consenso (e non sono più i tempi del “vota chi ti è stato indicato del tuo partito chiunque sia”).

Di questo sono consapevoli nel centrodestra, dove hanno già sperimentato cosa voglia dire spartirsi i candidati fra tre componenti asimmetriche e interessate a farsi concorrenza fra loro. Non sappiamo se ciò lo spingerà ad appoggiare un sistema elettorale di tipo proporzionale che consente invece a ciascuno di correre in proprio e poi si vede. Certo è che la ricaduta meno visibile, ma più importante di quanto è successo nelle urne amministrative di ottobre, sarà proprio l’impostazione che si sceglierà di dare alla legge elettorale per la consultazione nazionale che è già l’orizzonte a cui guardano tutti, arrivi a scadenza naturale nel 2023 o prima.

Curiosamente nessuno dice che proprio l’esperienza del governo Draghi dovrebbe spingere per un sistema che eviti di fare delle elezioni una ordalia per decidere chi governerà il paese. Questo è quello che piace ai demagoghi, ma sottopone al rischio di trovarsi alla fine nelle mani del Trump di turno. Un sistema che sposta la scelta del premier al confronto parlamentare post elezioni consente una scelta anche fuori degli appelli alle passioni del momento, magari interpretate da una quota di votanti che non rappresenta neppure la maggioranza dell’elettorato.

Può sembrare poco democratico a quelli che non sanno cosa sia la democrazia come sistema di rappresentanza, ma può consentire, in tempi di turbolenze sismiche, di non sottostare alla legge di un pendolo che oscilla all’impazzata. L’alternativa altrimenti è muoversi verso un sistema di semipresidenzialismo di fatto, perché se il pendolo politico va troppo veloce qualcuno che lo possa “registrare” diventa indispensabile. Ma anche questo richiederebbe un responsabile adattamento dei meccanismi istituzionali.

Il travaglio del nostro sistema democratico non è affatto giunto al momento conclusivo.

(Da Mente Politica)


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