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Matteo Salvini e Vladimir Putin

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Ormai è chiaro: la vicenda dei rapporti tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, da una parte, e il governo russo, dall’altra, dimostrano che l’estate italiana sarà infuocata non solo dal caldo torrido, ma anche dalle polemiche sul posizionamento dei partiti sullo scacchiere geopolitico.

A dire il vero, la questione delle interferenze russe sulla politica dei paesi occidentali non è un fenomeno nuovo. Basti pensare agli attacchi cyber durante le elezioni presidenziali americane del 2016 e ai legami stabiliti con Donald Trump, alle intromissioni che hanno contribuito al successo del referendum sulla Brexit nel Regno Unito, alla disinformazione e ai legami con la destra estremista di Marine Le Pen durante le ultime due presidenziali francesi e ai collegamenti con la protesta dei gilet gialli.

Ormai sappiamo con certezza che l’interferenza politica della Russia ha trovato terreno fertile anche in Italia. Prima, nella campagna elettorale del 2018 che ha visto l’exploit di due partiti, la Lega e il M5s, strettamente legati al governo di Mosca e a Russia Unita, il partito del presidente Vladimir Putin. Poi, nel corso della pandemia, quando soltanto la vigilanza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini limitò l’attività di spionaggio orchestrata dal Cremlino e nascosta nella missione di aiuto logistico e sanitario denominata “Dalla Russia con amore”.

Non bisogna stupirsi, pertanto, se in occasione dell’attacco distruttivo sferrato a febbraio contro l’Ucraina, Vladimir Putin si aspettasse dall’Italia maggiore indulgenza. La trama delle relazioni amichevoli con i due principali partiti italiani dava a Mosca la certezza di poter contare sul loro impegno per limitare gli aiuti all’Ucraina, visto che già negli anni precedenti sia la Lega che il M5s si erano impegnati fattivamente per ridurre le sanzioni contro la Russia dopo l’invasione della Crimea nel 2014.

Nessuna bizzarria, pertanto, nel ritenere che la Russia abbia potuto tramare con i gialloverdi per favorire la caduta del governo di Mario Draghi, il più fiero oppositore dell’invasione russa dell’Ucraina insieme con il governo americano di Joe Biden e quello britannico di Boris Johnson. Ecco perché, oggi, la questione del posizionamento internazionale dell’Italia provoca allarme nelle cancellerie del mondo occidentale e diventa centrale nell’agenda della campagna elettorale estiva. Si tratta di una novità assoluta per le campagne elettorali italiane, di solito concentrate sulle questioni di politica interna.

Bisogna infatti ritornare all’alba della Repubblica per ritrovare la centralità del fattore geopolitico sulle elezioni. Quelle del 18 aprile 1948 segnarono lo spartiacque della storia repubblicana con la definizione dell’assetto dell’Italia del dopoguerra. Allora il voto ratificò l’appartenenza del nostro paese al blocco occidentale in contrapposizione con il blocco comunista così come emerso dagli accordi di Yalta del 1945. Si definì, insomma, il sistema all’interno del quale avrebbero dovuto svolgersi il percorso politico e istituzionale della neonata Repubblica italiana: l’Occidente con le sue libertà democratiche e con il complesso di alleanze tra gli stati democratici che avevano sconfitto i regimi nazifascisti.

Dall’altra parte della ‘cortina di ferro’, l’Unione Sovietica avrebbe dominato i paesi dell’Europa orientale. Il 18 aprile del 1948, il popolo italiano non fu dunque chiamato a scegliere soltanto fra due coalizioni politiche, ma tra due diversi modelli di civiltà e tra due blocchi di alleati in conflitto.

La scelta dell’Occidente – che avrebbe portato l’Italia all’adesione alla Nato nel 1949 e alla fondazione della Comunità europea del carbone dell’acciaio nel 1952 – segnò la storia del nostro paese e consacrò la Democrazia Cristiana quale partito di governo e perno dello stato repubblicano per i successivi quarant’anni. Protagonisti di quella fase furono personaggi come Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, garanti a Palazzo Chigi e al Quirinale di questo passaggio fondamentale della storia italiana. La seconda metà del Novecento fu segnata così, nel nostro paese, dal sistema del “bipartitismo imperfetto”, celebre (e azzeccata) definizione del politologo Giorgio Galli.

In sostanza, l’Italia, come altri paesi europei, aveva sì due grandi partiti contrapposti, la Dc e il Pci. Ma a seguito della collocazione italiana nella sfera di influenza americana e della contrapposta fedeltà del Partito comunista italiano all’Unione Sovietica, per i comunisti italiani era impossibile andare al governo. La Dc sembrava di fatto ‘condannata’ alla guida permanente del paese. Ma l’assenza di un’opposizione in grado di scalzarla e di un sistema di alternanza limitava la spinta riformista e faceva dell’Italia una ‘democrazia bloccata, come spiegò, tra gli altri Aldo Moro.

Dall’altra parte, il Pci, sempre escluso dal governo, restava imprigionato in una retorica antisistema e di pura testimonianza. Il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e la fine dell’Unione Sovietica non hanno modificato il quadro delle alleanze internazionali. Anzi, hanno inaugurato l’età dell’oro della globalizzazione in cui sembrava che le “magnifiche sorti e progressive” dell’occidente liberale non avrebbero conosciuto ostacoli.

All’inizio del terzo millennio, però, le crisi dell’economia globalizzata hanno provocato tensioni sociali e rabbia antipolitica in tutti i paesi occidentali creando la base di consenso per i movimenti populisti. L’Italia è tra i paesi maggiormente toccati dal fenomeno, reso più forte dai radicati e antichi pregiudizi culturali – di destra, di sinistra e cattolici – contro il liberalismo economico, contro l’America e contro l’Unione europea.

Inoltre, in anni recenti, la progressiva distanza storica dalle ragioni della scelta occidentale compiuta alla fine della seconda guerra mondiale ha certamente fatto la sua parte. Oggi, però, la guerra di conquista della Russia in Ucraina ripropone il tema dell’appartenenza dell’Italia al blocco delle liberaldemocrazie occidentali. È anche una questione di sicurezza nazionale e di difesa europea. L’inflessibilità di Enrico Letta nella nuova conventio ad excludendum verso il M5s è certamente stata motivata da queste considerazioni: non si fa cadere un governo di unità nazionale mentre è in corso una guerra alle porte dell’Europa che vede l’impegno inevitabile dell’Italia. Ma il peso della responsabilità ricade anche sul centrodestra. In particolare, su Lega e Forza Italia.

Le antiche frequentazioni di Berlusconi con Putin e l’ostentata simpatia di Salvini per il leader russo hanno prevalso sul senso dello stato lasciando una macchia di inaffidabilità internazionale sui due personaggi e sui partiti da loro guidati. Di fronte agli attacchi concentrici, Giorgia Meloni cerca di farsi garante della difesa di Kiev nel centrodestra. Nonostante le prove di atlantismo, tuttavia, anche la leader di Fratelli d’Italia dovrà chiarire la sua simpatia verso le posizioni razziste e illiberali del primo ministro ungherese Viktor Orbán, indulgente con la Russia e vero e proprio free rider dell’Unione europea. Anche l’europeismo è una questione di interesse nazionale.

Il rischio che un centrodestra a maggioranza filorusso ed euroscettico possa creare allarme negli alleati e possa incidere sul corretto funzionamento del sistema politico italiano è sempre più all’ordine del giorno.


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