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Il murale del bacio tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini

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Qualcosa si sta muovendo e Conte se ne è accorto. Così va letta la sua discesa in campo prima in un colloquio col leader della CGIL Landini e poi il suo annuncio per lunedì di un incontro coi sindacati a Palazzo Chigi. Ha cominciato a parlare di riforma fiscale da fare, di sistema degli ammortizzatori sociali da rivedere, di rilancio delle politiche attive del lavoro, e cose simili. Vasto programma verrebbe da dire, ma i titoli dei capitoli, per quanto generici, sono quelli giusti.

Ovviamente si deve aspettare per vedere se assisteremo semplicemente al bis delle sceneggiate di Villa Pamphilj o se questa volta si farà sul serio. Viene da pensare che quantomeno Conte ci proverà, perché ha fiutato che è in gioco il suo avvenire. L’avvio per quanto incerto e a tentoni di una politica di dialogo nazionale (al momento parlare di solidarietà nazionale sarebbe precoce) è davanti agli occhi di chi vuole vedere. Certo chi ha tutto da perdere da un contesto di quel tipo, cioè Salvini, fa del suo meglio per sabotarlo. Non perché la Lega non avrebbe carte da giocare, ma perché non sarebbero le sue carte. Infatti si sta vedendo che Zaia si muove con accortezza e buoni risultati evitando inutili scontri all’arma bianca col governo e costruendo piuttosto un buon rapporto con il suo dirimpettaio Bonaccini che è una autorevole punta di lancia del PD. Il fatto che alla brigata si sia aggiunto il presidente del Friuli Fedriga, che ha alle spalle un ruolo parlamentare importante nella scorsa legislatura, qualcosa vorrà dire, anche se non sapremmo esattamente dire cosa.

Berlusconi si sta ritagliando un ruolo importante in questa contingenza, ma Giorgia Meloni non si lascia emarginare: da un colpo al cerchio ed uno alla botte, cioè dice di non fidarsi del governo, ma poi punta ad entrare in partita costringendo il governo e la maggioranza a discutere le sue proposte, alcune delle quali sono propaganda, ma altre no. Salvini invece non riesce a mettere sul tavolo più che proposte demagogiche.

È chiaro che la partita fondamentale si gioca nel tentativo di avviare un luogo di confronto parlamentare che diventerebbe incisivo. Qui il tema è banale: se si resta all’ipotesi della fusione delle due capigruppo di Camera e Senato, non si andrà molto in là. I responsabili dei gruppi politici sono stati scelti su criteri molto partitici e devono lavorare per tenere insieme squadre che non sono proprio compatte e di conseguenza sono complicate da governare. Difficile che possano tramutarsi in personaggi capaci di reggere un gioco di proposte e negoziazioni che richiedono una buona libertà di manovra, compresa la possibilità di rischiare in proprio senza che questo porti a sconfessioni e distinguo che metterebbero in crisi i diversi partiti.

Ecco perché la sola soluzione operativamente percorribile è la commissione bicamerale dedicata: per questa i partiti potrebbero scegliere le persone adatte, che sarebbero capaci di articolare piani e di avere almeno l’ambizione di rivolgersi al Paese e non solo agli elettorati, per non dire ai pasdaran, dei rispettivi partiti. Alcuni l’hanno capito (vedi il lavoro del sen. Parrini, per fare un nome, ma ce ne sarebbero altri), anche se sanno che raggiungere l’obiettivo non sarà semplice. Una commissione di quel genere sarebbe o almeno potrebbe essere un luogo di reale potere politico, il che significa possibilità di crescita del ruolo dei suoi membri: e questo non è certo ben accolto dai molti che non ci potrebbero entrare e che non vogliono fra i piedi nuovi concorrenti.

È immaginabile che se il progetto di una bicamerale di questo tipo avesse successo, a finire ridimensionato sarebbe il governo, soprattutto in questo momento in cui è debole, molto criticato per le sue inerzie, piuttosto assente, almeno a livello pubblico, sui grandi dossier (di cui invece pubblicamente si occuperebbe la bicamerale). Ecco che Conte percepisce la sfida e sente che non può andare avanti a fare il “conte zio”, quello del “sopire e troncare”. Non può giocare sul fronte parlamentare, perché non ha un partito: quello su cui in qualche modo contava, M5S, è inadatto a queste strategie e non si sa come uscirà dai suoi Stati Generali (improbabile che trovi un “sapere politico” di cui è stato sin qui carente). Prova allora a puntare su un fronte diverso, quello della società organizzata. Se riuscisse ad avere da questa un mandato di rappresentanza potrebbe affrontare il nuovo scenario degli equilibri politico-parlamentari da una posizione solida anche se non proprio di forza.

Tuttavia per avere successo in questa impresa Conte deve riuscire ad ottenere questo mandato dalle varie organizzazioni sociali di rappresentanza e non sarà così semplice. I sindacati sono così convinti che lui sia la carta giusta su cui puntare, o lo considerano solo una delle controparti con cui relazionarsi senza impegnarsi troppo? Ed è possibile in questa strategia lasciare al margine la Confindustria? Le altre organizzazioni non pretenderanno di avere in cambio del loro appoggio bonus e sussidi che non si sa quanto possano essere compatibili con l’attuale situazione della finanza pubblica? (e se è per questo anche i sindacati hanno da chiedere coperture, come un ampio ricorso alla cassa integrazione e al blocco dei licenziamenti).

Chi ha presente questo quadro capisce bene quanto l’attuale movimento nel quadro politico-parlamentare e nella dialettica stato-regioni sia da tenere in grande considerazione per valutare gli sviluppi futuri. Ciò che sembrava congelato, forse dovrà subire le conseguenze dell’avvento di un clima meno glaciale.


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