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Giuseppe Conte

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Il valico della legge di bilancio è stato scavallato. Poco gloriosamente, a dir il vero, visto che è un testo pieno di mancette e bonus cervellotici, non proprio il messaggio migliore che si poteva mandare a Bruxelles come accreditamento della nostra capacità di gestire fondi. E’ vero che lì ci sono persone abituate a fare i conti con le miserie di ogni fase politica, ma non esagerare avrebbe mandato già un bel segnale.

Diamo ovviamente per scontato che al Senato tutto andrà liscio: proprio il modo di formazione di questa legge di bilancio ci dice che nessuno avrà voglia di prendersi la responsabilità di privare la vasta platea di “clientes” dei benefici elargiti (e, va detto, ce ne sono anche non pochi di necessari e ragionevoli). Forse il palcoscenico di palazzo Madama si presterà per qualche recita a soggetto: molti se la aspettano da Renzi, altri da qualche leader dell’opposizione, ma insomma le telecamere sono puntate ed è difficile che non ci siano quelli che soggiacciono al fascino dell’esibizione soprattutto di questi tempi tumultuosi, anche se sarà solo spettacolo.

L’attenzione degli osservatori è però concentrata su altro, ovvero su come si riuscirà a chiudere la cosiddetta verifica. Principalmente sul tavolo è il Recovery Plan che nella versione elaborata da Palazzo Chigi sembra non vada bene a nessuno, neppure nella maggioranza. Il dissenso può avere intensità diverse: si va da LeU che sembra concentrarsi giustamente sul finanziamento alla sanità (per altro nel mirino anche di altri partiti), al PD che esibisce un documento più articolato, ma attento a non mettere in discussione Conte (anche se è un’impresa difficile), a IV che attacca a testa bassa il premier e la sua mancanza di visione.

Sembra fare storia a sé M5S che oscilla fra un po’ di retorica di maniera (investimenti green e roba del genere) e la richiesta di tagli alle tasse che è come agitare un drappo rosso davanti ai tori brussellesi (quella roba è esclusa dall’impiego di fondi europei: significherebbe tagliare le tasse degli italiani utilizzando le tasse degli altri paesi europei, perché in definitiva è così che si finanzieranno i fondi europei).

La cosa curiosa è che in maggioranza gli osservatori pensano che sul Recovery Plan si troverà un qualche accordo: ormai la furbata della cabina di regia marcata Conte & Friends è stata messa nel cassetto, sul resto si troverà l’accomodamento. Eppure stiamo parlando non di mancette e bonus, ma del più formidabile finanziamento disponibile per dare una svolta alla nostra fase di decadenza accentuata dalla pandemia: ci vogliono piani e visioni, non accomodamenti.

Il nucleo dello scontro consisterà nel confronto sul ridimensionamento della geografia politica uscita dal risultato del 2018: tanto riguardo alla possibilità di disarticolare il blocco delle destre (attaccando il loro “centro”), quanto a quella di rivedere il peso dei Cinque Stelle e del loro leader per una (lunga) notte, Giuseppe Conte. In questo gioco politico sono coinvolti tutti, con un farsi e disfarsi di alleanze e convergenze in cui c’è da perdere la testa.

In questo scenario vediamo emergere due tendenze interessanti. La prima è l’illusione eterna che lo sblocco della politica italiana sia ricostruire qualcosa di simile a ciò che si ritiene sia stata la Democrazia cristiana, perché in realtà quel partito non fu mai, tranne forse nell’ultima fase del suo declino, un partito di centro puramente “politico” fondato su una banale gestione del potere. C’era anche quello, ovviamente, ma è stato in piedi fino a che era contornato da una capacità di interpretare il travaglio di crescita dell’Italia esprimendo un reale radicamento sociale. Ed è questo che manca a tutti coloro che ci si è illusi potessero far rivivere la sua capacità di esercitare una vera “regia” della dinamica politica: si chiamassero Dini o Monti, o persino Mario Segni. Questo manca del tutto anche a Conte. Ci spiace per i sondaggisti, che sembrano non tenere conto che non si vota per il “personaggio”, ma per il complesso di donne e uomini che può presentare nelle sue liste elettorali. Visto che va di moda, vorremmo ricordare che Churchill era all’apice della sua popolarità personale quando nel 1945 fu sconfitto alle elezioni, esattamente perché la gente non votava solo per lui, ma per il suo partito, i conservatori, che erano usciti molto poco brillantemente dalla crisi prebellica.

Dunque non sarà l’ipotetico partito di Conte che può ricompattare una alleanza di governo traballante. Ma non lo sarà neppure l’altra tendenza che vediamo risorgere anche con personalità autorevoli a sostenerla, quella secondo cui ci salverà il mantenimento di un vincolo maggioritario nella legge elettorale, perché così nessuno può permettersi di giocarsela da solo nelle urne. Anche qui ci sarebbe da ricordare che quel vincolo non ha funzionato almeno per il centrosinistra: le sue coalizioni obbligate, ampie e roboanti, hanno dato luogo a governi tutto sommato deboli, i quali soprattutto non sono mai riusciti a stabilizzare il sistema. Apparentemente è andata un po’ meglio all’allora centrodestra, ma quanto a stabilizzazione del sistema ha fatto fiasco anche quello, tanto è vero che oggi ci troviamo con una geografia elettorale sconvolta rispetto alla cosiddetta seconda repubblica.

E allora? Allora il gioco è del tutto aperto e non si concluderà tanto presto. Può darsi che arriviamo a qualche scossone significativo allo scadere di queste vacanze natalizie, ma sarà solo una tappa in una evoluzione prevedibilmente ancora lunga.


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