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Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio

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Si può spargere sarcastico cinismo e dire che comunque vada sarà un capitombolo. Con Alessandro Di Battista che avverte lo stato maggiore grillino di non avvelenare i pozzi e chiama a raccolta i ribelli – a partire dalla quarantina di parlamentari cacciati, epurati, espulsi ma ancora no, chissà, vedremo – usando la diretta social come miniaturizzazione della piattaforma Rousseau.

O con Beppe Grillo che smentisce il figlio del suo gemello visionario spiegando che i pentastellati non sono più marziani. Senza specificare cosa sono diventati: magari perché non ci sono pianeti capaci di ospitare un MoVimento che ha assunto le sembianze (e i poteri?) di una gorgonica Medusa.

Si può spargere sarcastico cinismo ma sarebbe un errore perché i travagli e le difficoltà di una forza politica, a maggior ragione se così parlamentarmente corposa, vanno rispettati: sempre.

Quelli dei Cinquestelle sono tanti e aggrovigliati. La spaccatura nel gruppo parlamentare e nel resto del corpaccione degli aderenti è così profonda da apparire insanabile. Solo che in questo modo perdono tutti.

I governisti che non hanno spazi di manovra e, nemesi della storia, devono restare aggrappati ad un superbanchiere per sopravvivere. Se infatti Di Maio e co. si mettono a fare la fronda al governo, daranno ragione ai ribelli che li aspettano e hanno già allestito adeguate forche caudine.

Questi ultimi a loro volta, staccati dalla casa madre, sono nella stessa, speculare e opposta situazione: sono un gruppo con una leadership estemporanea e non hanno altra parola d’ordine che un ritorno alle origini, alle radici di una scelta sulla struttura della quale però è stato gettato diserbante a iosa.

A ben vedere, l’urlo di Dibba è come abbaiare alla luna. La sua diretta (“Draghi 13° apostolo, non sto guidando scissioni o correnti”) non ha regalato annunci alla rete, Non c’è nulla da avvelenare perché la realtà è che i pozzi, cioè il consenso elettorale, si sono prosciugati e la falda acquifera che li alimentava, cioè l’apriscatole che doveva sventrare la democrazia parlamentare, si è auto contaminata.

I Cinquestelle si sono affacciati all’alba della legislatura nel ruolo di motore immobile della governabilità, statuendo che nessuna coalizione era possibile senza di loro. In due anni e mezzo, e dopo aver sperimentato tutte le combinazioni di maggioranza possibili, il motore è andato in panne.

Sarebbe il caso di sostituirlo, solo che nessuno sa con che cosa. La possibilità indicata dal Pd con l’intergruppo se trasferita in campagna elettorale si trasforma in una subalternità acclarata. Anche la prospettiva di offrire a Giuseppe Conte il predellino della diligenza per attrarre passeggeri centristi minaccia di restare informe: come si può seguire una leadership se quasi metà di quelli stessi che l’hanno prodotta si rifiutano di sostenerla?

Il grillismo come grimaldello rivoluzionario per cambiare il sistema è affogato nei funambolismi del suo Garante: le istituzioni non sono il palcoscenico di un teatro. E il grillismo pilastro della governabilità si è sgretolato mostrando un prolasso di credibilità e, adesso, anche di forza. Partito per cambiare il mondo, il M5S ha finito per cambiare se stesso. Film che la storia politica ha proiettato una miriade di volte.


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