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L'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte

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La politica non è molto vivace di questi tempi, bloccata com’è sulla questione dei vaccini. È una partita in mano al governo da un lato e alle regioni dall’altro. Per i partiti gli spazi sono nulli, a parte il fare un po’ di demagogia sulla possibilità del ritorno ad una qualche forma di normalità con il mito delle “riaperture”.

Peraltro quando si deve sempre sottolineare “naturalmente si farà tutto in condizioni di sicurezza” si parla del nulla, perché la precisazione è scontata, ma non si riesce poi a mettersi d’accordo su quali siano le condizioni di sicurezza (soprattutto dopo il prevalere della variante inglese del virus che ha una capacità di infettare molto notevole).

In questa situazione di calma quasi piatta la sola forza che fa notizia sono i Cinque Stelle, sempre più alle prese con una transizione che non decolla. Giuseppe Conte non sembra in grado di accelerare la trasformazione, non si capisce se per una sua naturale propensione a rimandare le scelte o per un’oggettiva difficoltà a dipanare una matassa più che ingarbugliata.

La diatriba interna si gioca tutta come una questione di ortodossie, cioè sulla cosa più tipica dei partiti del passato, per dirla con Casaleggio jr. che invece è uno dei contendenti in questo confronto. In sostanza si sta cercando di vedere quanto il richiamo alle identità, o meglio alle mitologie del passato possa essere superato.

Conte, che da quel retroterra non viene, né culturalmente, né per militanza, prova a realizzare il classico percorso nella rifondazione dei movimenti politici: cambiare le coordinate sostenendo che si continua a muoversi sulla base della vecchia mappa. Per riuscire in questa operazione avrebbe bisogno però di un sostegno deciso da parte almeno di qualche “socio fondatore” e magari anche di mostrare che dispone di una squadra con cui collabora. Invece non dispone dell’uno e non gli conviene esibire l’altra (ammesso che esista, cosa di cui è lecito dubitare).

Il socio fondatore Grillo è una presenza ambigua. È stato lui a lanciare Conte, ma si intuisce che non vuole dargli una piena investitura, perché tutto sommato gli è difficile rompere con il suo passato che non è stato affatto archiviato. C’è Davide Casaleggio che gli agita davanti l’ombra del padre e ci sono alcuni alfieri della prima ora, Di Battista in testa, che non cessano di rammentargli gli antichi giuramenti.

Lui può anche ripeterli, vedi la storia del limite di due mandati, ma poi è costretto a smentirsi da solo nel momento in cui sostiene la ricandidatura della Raggi o affida una normalizzazione del movimento a Conte, che ha in mente di tornare al governo e dunque deve trovare il modo di salvare le “esperienze” di chi ha lavorato con lui (e soprattutto di chi ha una presenza pubblica che può raccogliere voti).

Tuttavia l’ex premier è costretto a fare una battaglia in solitaria, perché il movimento è così frammentato che se si avventurasse ad esibire una sua squadra di fedeli attizzerebbe subito il fuoco di un correntismo ormai piuttosto radicato all’interno di M5S. Così parla, poco, sempre da solo, ma soprattutto sono silenti le figure che un tempo sono state i frontman del movimento. Di Maio si esprime raramente e su questioni generali, Bonafede è scomparso, i ministri e sottosegretari pentastellati se si espongono lo fanno sulle loro competenze governative. Su cosa debba essere il nuovo movimento, su come debba strutturarsi, persino su quale possa essere il suo nuovo manifesto politico ben pochi si espongono, e quei pochi sono figure di seconda se non di terza fila.

Eppure ci sono diversi problemi che urgono a cominciare dalle elezioni comunali che è difficile immaginare si possano affrontare con qualche credibilità senza avere un profilo identitario da mettere in campo. Il caso di Roma rimane emblematico. Solitaria la corsa della Raggi, che non è portavoce di niente se non di sé stessa: nessuno si pronuncia contro, ma nessuno, Grillo a parte, neppure davvero a favore. Per le altre città simbolo siamo nella nebbia più totale, cosa che non aiuta certo Letta a procedere nel presentare come importante un’alleanza del PD coi Cinque Stelle che non si sa più cosa siano. Si continua a considerarli dei buoni portatori d’acqua, ma giusto perché lo direbbero i sondaggi mancando qualsiasi altra fonte di accreditamento. Non stupisce che in questo clima si avanzino delle proposte che sono di grande genericità e che si resuscitino riti degli antichi partiti. L’ultimo sembra essere la proposta di fondare una scuola di politica per formare i quadri e forse più in generale i militanti.

Il mito è la vecchia scuola del Pci alle Frattocchie, che però si occupava di formare persone già testate e selezionate nel lavoro di base nelle sezioni territoriali, cioè in quell’articolazione che manca al M5S. Se la scuola di politica viene svincolata da un cordone ombelicale di quel tipo è pura rappresentazione scenica. Del resto scuole di politica ne hanno tutti, ne hanno fatte Renzi e Letta, la Lega e FI, i gesuiti e varie organizzazioni cattoliche, nonché movimenti di volontariato. Per ora siamo lontani dalla prova che siano dei vivai che funzionano per mettere in campo personale politico di una certa caratura (può darsi che in futuro arriveranno, ma non si può esserne certi).


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