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Da sinistra, Tajani, Salvini e Meloni

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La cabala dei partiti sta tutta nello studiare come raggiungere la pole position nelle griglie di partenza delle elezioni. Fusioni, aggregazioni, aperture verso destra o verso sinistra tutto dovrebbe servire allo scopo.

Un sano scetticismo verso queste forme di alchimia è imposto dal realismo, ma ciò non toglie che le forze politiche vi si dedichino con il massimo sforzo disponibile.

Nel centrodestra Salvini s’è messo avanti col lavoro provando a lanciare il progetto di una qualche forma di coordinamento con Forza Italia. Servirebbe, dicono quasi tutti, a far nascere il primo raggruppamento per raccolta di voti e dunque a candidare il suo leader alla guida del governo una volta espletata la tornata elettorale nazionale.

Curiosamente si discute se questa forma di “federazione” (o cos’altro ci si inventerà) possa raggiungere la fantastica quota del 36-37% di consensi nelle urne. Il calcolo è ottimistico perché va ben oltre la somma di quanto attribuito dai sondaggi a Lega e FI. Così facendo si arriverebbe più o meno al 27-28%: una bella cifra, ma quasi dieci punti lontana dalle fantasie sopra ricordate, le quali non spiegano, se non con numeri al lotto, come si raggiungerebbe quel traguardo.

Salvini ormai punta chiaramente sull’effetto Draghi. Ne è diventato il fan più ardimentoso e cerca di mostrarlo in tutti i modi, ma quanto sia credibile la trasformazione di questo entusiasmo in voti aggiuntivi è tutto da dimostrare.

Certo il leader leghista conta che Draghi non ripeta la sbandata di Monti e si raccatti un suo partito, perché s’è visto che così non funziona. I partiti si fondano consumando le scarpe, reali e metaforiche, nel percorrere i territori alla ricerca e motivazione di adepti alla causa, operazione difficile da gestire quando si è impegnati nell’azione di governo (specie in questi frangenti così impegnativi su quel piano).

Salvini lo sa, pensa dunque che alla fine il tesoretto di consenso raccolto dall’attuale premier andrà letteralmente all’asta, e cerca di comprare il maggior numero di biglietti possibile in vista della lotteria finale.

È abbastanza curioso che il PD non reagisca in maniera appropriata a questa operazione. Probabilmente la sottovaluta, convinto che sia il solito fuoco di paglia. Non considera però che se lascia il campo libero a Salvini nell’ottica di un sostegno al governo convinto ma non troppo, perché crede che sia prioritario sventolare una sua agenda, le chance di perdere l’immagine dell’unico partito di massa capace di ragionamento anziché di demagogia saranno in continua crescita.

Anche in questo caso a dominare è però la sindrome della federazione. Calcolatrice alla mano se si sommano sulla base dei sondaggi i consensi del PD e quelli di M5S già si arriva testa a testa con i consensi di Lega + FI, mentre se ci si aggiungono e consensi di LeU quantomeno il pareggio è assicurato.

Di nuovo si tratta di conti senza l’oste, perché in tutti i casi la somma fra i consensi (per di più stimati e non reali) non da quei risultati così certi come vorrebbero gli strateghi di questa confusa stagione.

Entrambi i campi poi sono lì a strologare su cosa avverrà di quell’area confusa e magmatica che va genericamente sotto il nome di “centro”. Ci si mette dentro Renzi, Calenda, Bonino, magari una spruzzata di Verdi, e ci si interroga se la neonata “Coraggio Italia” di Toti e Brugnaro si posizionerà da quelle parti, senza parlare dell’ipotesi di qualche fuga da FI verso un nuovo centro per insofferenza verso l’abbraccio coi leghisti. È un’area che sempre valutandola con la calcolatrice potrebbe valere fra il 10 e il 15%, ma è un ritornello che sentiamo ripetere da decenni senza che si sia visto quagliare qualcosa di significativo.

Sarebbe opportuno che tutti i partiti invece di far di conto provassero a misurarsi con le novità di questa stagione politica. Non c’è da perdersi ad immaginare misure fantasiose per rispondere a grandi problemi reali con soluzioni di piccolo cabotaggio fatte passare per miracolistiche. Basterebbe avviare una seria opera di ricognizione non solo delle problematiche che si possono affrontare con profitto, ma delle azioni specifiche che i partiti potrebbero/dovrebbero fare per essere riconosciuti dalla pubblica opinione come partecipi delle fatiche del governo.

Piuttosto che discettare su chi è più draghiano di Draghi, piuttosto che correre ad inventarsi qualche trovata per mostrarsi “addizionali” a quanto propone il premier, ci sarebbe da impegnarsi nel lavoro di bonifica delle tante storture contro cui cozzerà la realizzazione di tante cose previste nel PNRR. Anche se non sembra, una azione concorde dei partiti in questi campi otterrebbe più risultati di quelli a cui può ambire il governo, per la semplice ragione che, per dirlo in metafora, asciugherebbe l’acqua in cui nuotano quei pesci.

Come sempre il timore è che mentre uno o più partiti si impegnano in quelle operazioni, gli altri approfittino del malcontento inevitabile che esse suscitano per sottrarre loro consensi. E siccome ormai a fronte di un futuro elettorale reso più che incerto fra l’altro dalla modifica dei collegi e dal taglio del loro numero (cosa già avvenuta, a prescindere se si farà o meno una nuova legge elettorale) il mantra dominante è solo quello di aggregare voti a qualunque costo, illudendosi di mischiare facilmente moderati ed estremisti, realisti e utopisti, i partiti ragionano più che altro con l’occhio alla creazione di blocchi e cartelli. Un pessimo modo per fare politica.


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