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Il premier Mario Draghi interviene alla Camera

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Il drago porta a casa un’altra vittoria e se non fosse stato per la sua determinazione possiamo essere sicuri che di questa prima riforma della giustizia non si sarebbe visto nulla.

È stato dunque raggiunto un accordo che ha di fatto ricondotto alla ragione ciò che era stato imposto dall’infausto ministro Bonafede. Ricordiamolo: tutto il giustizialismo italiano, di destra e di sinistra, su una sola cosa era d’accordo e cioè manette per tutti e senza ritorno.

Ieri il governo – vista l’inerzia di un Parlamento paralizzato dai gas di decomposizione del corpo politicamente morto dei grillini – e cioè Mario Draghi in persona ha trattato, mediato e alla fine imposto un documento firmato dalla ministra Cartabia che pone finalmente un limite ai processi.

Non si potrà cioè protrarre indefinitamente nel tempo un processo penale, perché sono stati posti dei limiti oltre i quali il procedimento non potrà essere condotto a termine. Ci saranno eccezioni per casi particolarmente gravi e persino quando ci si potrà attendere “con ragionevole certezza” l’esito di un processo. Ma, insomma, è fatta.

Non siano esattamente sulla stessa linea dei Paesi di diritto inglese in cui in nessun caso tu, cittadino, puoi essere processato due volte per lo stesso reato. Ma abbiamo cominciato ad avvicinarci in molto soddisfacente, anzi eccellente. E le cronache hanno offerto ieri una controprova dirompente della necessità di cambiare passo, con l’assoluzione di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma accusato di ogni sorta di crimine perché così era stato deciso con un teorema politico che aveva bisogno di una “Roma mafiosa” per portare alla vittoria della Raggi.

Ieri, l’assoluzione dell’ex primo cittadino dopo sette anni di pena e di umiliazioni per lui e per i cittadini della capitale, ha dimostrato la necessità di una riforma in grado d’impedire d’ora in avanti qualsiasi genere di processo politico o di uso politico del processo, come purtroppo è sempre avvenuto nella nostra Repubblica ma particolarmente con l’entrata in scena della giustizia dei “pool” che hanno agito anche in aperto disprezzo e sfida nei confronti del Parlamento.

Anche in questi giorni il Parlamento non ha dato segnali di particolare vitalità ed è anzi rimasto paralizzato nelle sue squilibrate combinazioni che seguono il lungo disfacimento del partito di maggioranza. La riforma è stata imposta dall’Europa, proprio quell’Europa che per anni è stata descritta come un covo di arpie bancarie e di ciechi burocrati, per una questione etica: la giustizia italiana è un imbarazzo per l’Unione e un disincentivo per gli investimenti stranieri che fuggono da un Paese incapace di garantire la certezza del diritto e del giusto processo civile e penale.

Dunque, grazie a Draghi e all’Europa il primo passo è stato fatto e forse ce ne sarà un altro di passo con i referendum abrogativi che dovrebbero sostenere la riforma Catarbia affrontando anche la questione della separazione delle carriere e dei principi liberali della giustizia in democrazia. 

Il cammino è ancora lungo ma in compenso è irreversibile ed è cominciato bene con un gesto coraggioso e determinato del presidente del consiglio che, come accade quando si tratta di questioni vitali, non si fa mettere i piedi in testa da nessuno e, dopo aver mediato, impone la soluzione.

Come è accaduto ieri quando ha dovuto districarsi fra i mille distinguo che hanno permesso a Enrico Letta e a una parte dei grillini di cavarsela politicamente per il rotto della cuffia mentre il solitario Dibba, che non si sa mai se è dentro o fuori inveiva contro i traditori. Ma costoro come si è visto non hanno alcun peso sulle decisioni, di cui il solo garante resta Mario Draghi.


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