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La Camera dei Deputati

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In questa fase politica così precaria, c’è un elemento che alla prova dei fatti si rivela fisso e decisivo: chi proclama ultimatum perde la partita. O meglio, chi avanza una possibilità dicendo: o così o niente, spesso ottiene di sgolarsi solo per afferrare il secondo. È successo con l’ormai famigerato “O Conte o elezioni” di Zingaretti dopo la caduta del secondo governo guidato dall’avvocato del popolo. Prima ancora, nella famosa estate del Papetee, ere stato Matteo Salvini a pressare l’ex premier fino a provocare la crisi. E poi ci sono stati gli ultimatum di Renzi poi rinnegati; quelli di Enrico Letta sulla legge Zan: si vota solo il testo che c’è, e chi più ne ha più ne metta.

Qualcosa del genere era annunciato anche alla vigilia dell’incontro clou tra Mario Draghi e Giuseppe Conte, quest’ultimo bardato delle mostrine di neo capo politico del M5S. Dai sussurri restroscenistici trapelati dopo il faccia faccia e in buona misura anche dalle stesse parole pronunciate da Conte alla fine dell’ora di colloquio, sembra che pure stavolta l’assioma ultimativo (in questo caso sulla riforma della giustizia del Guardasigilli Marta Cartabia) abbia prodotto il risultato solito.

Non è una sorpresa. L’approccio da faccia feroce non funziona per chi sta all’opposizione per ovvi motivi. E ancora meno funziona per chi, volente o nolente, fa parte di una maggioranza ampia e con molte sfaccettature che tuttavia sorregge, salvo poi impuntarsi su singoli aspetti o provvedimenti. La doppia morale o il doppio atteggiamento di lotta e di governo invece di produrre chiarezza sparge confusione e, questo il punto, contrariamente alle aspettative di dare forza ad una proposta finiscono inevitabilmente per indebolirla. L’ultimatum o la postura del prendere o lasciare, infatti, funziona quando è pronto un piano B valido e percorribile. Cosa che allo stato non esiste.

Chi infatti, in caso di irrigidimento delle posizioni o per far valere un proprio profilo identitario, minaccia lo sconquasso, perde la partita ed è costretto a rinculare su più tenui versanti perché l’unico piano B possibile sarebbe uscire dalla coalizione e rischiare di far precipitare il Paese nel caos. Le elezioni non le vuole nessuno a cominciare dai Cinquestelle e peraltro sono impossibili perché tra pochi giorni scatta il semestre bianco. La caduta di Draghi segnerebbe un mastodontico downgrading dell’Italia e la chiusura del rubinetto europeo che deve erogare quasi duecento miliardi di qui al 2026. Oppure vorrebbe dire gettare all’aria il Recovery e la sua traduzione italiana nel Pnrr, rinfocolerebbe gli stereotipi degli italiani incapaci di tener fede ai Patti, dello Stato non in grado tenere a freno i propri conti. Insomma un disastro. Davvero c’è qualcuno che può o vuole prendersi una simile responsabilità?

È ovvio che chi lavora per il tanto peggio tanto meglio c’è sempre; come pure è palese che più Draghi va avanti e imposta l’azione di governo secondo criteri ineccepibili, più invidia e gelosia nei suoi confronti crescono. È il prezzo che paghiamo ad un confronto politico di scarso spessore e deludente impronta.

Ciò tuttavia non cambia l’assetto di fondo e anzi in qualche misura addirittura lo rafforza: se qualcuno calza gli scarponi chiodati per far valere le sue posizioni, trova nell’inquilino di palazzo Chigi un interlocutore chiuso agli oltranzismi nonché deciso a realizzare il programma che si è dato, e nelle condizioni politiche generali un argine a colpi di testa, avventurismi, irresponsabilità.

Il passaggio in atto è di tipo “ricostruttivo”, non demolitorio. È il momento dei realizzatori, non degli sfasciacarrozze. È la fase del confronto, magari anche subìto ma inevitabile: non di chi ama fare a sportellate. Per di più nel caso di Giuseppe Conte il paradosso è che tocca lui far la parte del fondamentalista mentre Beppe Grillo indossa l’abito del dialogante. Eppure proprio la vicenda pentastellata dimostra che c’è un legame a filo doppio che non può essere sciolto. Dimostra cioè che non può esistere un grillismo senza Grillo e neppure è concepibile un Conte senza il MoVimento. Entrambi devono convivere per evitare il collasso, interpretando però l’uno la parte che risulterebbe più congeniale e credibile all’altro. Quanto questo sia un equilibrio stabile, ciascuno può giudicare.

L’Italia ha una occasione irripetibile per rimettersi in corsa eliminando alcune delle sue ataviche zavorre. Può riavviare la macchina degli investimenti, ammodernare e digitalizzare la Pubblica amministrazione, rimettere in carreggiata una giustizia troppo lenta e troppo sbilanciata a favore dei Pubblici ministeri. La vicenda dell’ex leader dell’Anm Luca Palamara potrebbe/dovrebbe provocare un sussulto di responsabilità per riguadagnare almeno una parte del credito perduto. E la politica ha l’opportunità di rilanciarsi rimettendo in parità l’equilibrio tra poteri, fondamento della democrazia. Chi prova a sacrificare questo obiettivo strutturale per valorizzare singole rendite di posizione, non rende un buon servizio ai cittadini. E poiché è arrivato il momento delle scelte, è tanto necessario quanto togliersi la mascherina della bellicosità per usare il viso aperto della ragionevolezza.


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