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Mario Draghi

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In maniera del tutto apocrifa e non autorizzata, proviamo a metterci nei panni di Mario Draghi e a vedere le cose dal suo punto di vista. L’ex presidente della Bce ha accettato l’incarico di fare il premier offertogli da Sergio Mattarella ben sapendo che si trattava di un esercizio da funamboli a capo di una maggioranza tanto larga quanto occasionale, necessitata, d’emergenza. E tuttavia sapendo che avrebbe potuto contare, almeno fino all’inizio del 2022, sul sostegno e sulla rete di protezione offertagli dal Quirinale.

SuperMario si è messo al lavoro con uno stile e una modalità d’azione del tutto innovativa nel panorama politico-istituzionale italiano. Alcuni risultati sono arrivati, per esempio sul piano delle vaccinazioni e del Recovery plan, con annesso recupero di prestigio e di ruolo internazionale del Paese. Adesso tuttavia il presidente del Consiglio sconta qualche affanno.

Alla penuria di amalgama tra i partiti della coalizione e allo scarso senso di responsabilità rispetto alla mission di mettere in sicurezza l’Italia per poter godere delle risorse provenienti da Bruxelles – che tradotto significa dover fare le riforme che sono attese da decenni per ammodernare il Paese – nelle ultime settimane si è aggiunta la frenesia da campagna elettorale dovuta alla tornata amministrativa che si svolgerà il prossimo 3-4 ottobre con annessi ballottaggi due settimane dopo. Di conseguenza, le ragioni dello stare insieme sono impallidite rispetto alla spinta delle forze politiche ad esprimere la loro identità nel tentativo di raccogliete il massimo di consensi possibili nelle urne.

Bene. Proviamo ad allargare lo sguardo al 2022. Per alcuni tra pochi mesi ci saranno le elezioni politiche perché Draghi traslocherà al Quirinale. Altri vogliono sbarrare questa possibilità chiedendo al capo del governo di restare a palazzo Chigi fino alla scadenza naturale della legislatura. Sia nell’uno che nell’altro caso, tuttavia, è inevitabile che il 2022 sia un anno di campagna elettorale. Nelle piazze, se si va verso le urne anticipate. O nel Parlamento se si deciderà di aspettare fino all’anno successivo. In altri termini ciò che sta accedendo ora sarà nulla rispetto a quando gli appetiti dei partiti cresceranno a dismisura in vista di un appuntamento elettorale comunque certo. Come reggerà la maggioranza di larghe e strambe intese a questo richiamo della foresta capace di scatenare a dismisura la competition? E come farà Draghi, al netto delle sue indiscusse e indiscutibili qualità, a tenere dritta la barra riformista in presenza di un fronte prevedibilmente così ampio di fibrillazioni?

Realisticamente, nessuno è in grado di dare una risposta. Ci sono però alcune colonne d’Ercole invalicabili. Le prime. Per arrivare al 2023 è indispensabile che la coabitazione attuale tra Pd, M5S, Lega, FI e Renzi regga. Vuol dire che Letta, Conte e Salvini devono continuare a governare assieme nonostante il crescendo delle metaforiche bastonate che si danno e soprattutto, come visito, si daranno di grande e santa ragione nei prossimi mesi. SuperMario è convinto di poter reggere a questa sorta di guerriglia e di logoramento?

Le seconde. Come detto, Draghi procede sapendo di poter contare sulla suasion, neppure così solo e flebilmente moral, del presidente della Repubblica. Il quale non perde occasione, vedi campagna vaccinale e Green pass, di sostenere con forza le iniziative del governo. E anche viceversa, diciamo. Nel senso che nel rispetto delle reciproche prerogative, pure palazzo Chigi si allinea alle indicazioni del Colle: non potrebbe essere altrimenti. Ma se succede che Mattarella non accetta alcuna ipotesi di bis come ha fatto intendere in moltissime e anche recentissime occasioni, e al Quirinale non ci finisce lui stesso, il che comunque aprirebbe tutta un’altra serie di questioni assai delicate, come potrebbe Draghi pensare di procedere privo dell’appoggio e dell’imprimatur che gli ha fornito e garantito l’attuale, senonché in scadenza, Presidente?

È impossibile e anche profondamente scorretto provare ad infilarsi nella testa dell’ex banchiere. Però non è difficile immaginare che l’ipotesi di lasciarsi rosolare al fuoco della legna ultra polemica dei partiti, in condizioni di procedibilità del cronoprogramma riformista sempre più precarie, per poi magari sentirsi dire nella primavera del 2023: “È stato un piacere, grazie e arrivederci”, non sia in cime delle sue aspettative.

Tutto questo dove porta? Ad alcune semplici conclusioni. Se davvero le forze politiche intendono adoperarsi per garantire la continuazione dell’azione di governo draghiana devono, ferme restando le rispettive esigenze, riconfermare un feeling unitario oggi pericolosamente assottigliato che valga di qui per un altro anno e mezzo e che porti ad acquisire significativi risultati sul piano delle riforme. Allo stato appare obiettivo piuttosto impervio da raggiungere con l’inerzia politica che sembra andare in direzione opposta: ma l’Italia è il Paese delle sorprese e delle provvide resipiscenze quando meno te l’aspetti.

Se invece gli animal spirits divaricanti dovessero prendere il sopravvento, non è escluso che sia Draghi stesso a risalire il Colle e riconsegnare al nuovo capo dello Stato, diverso da Mattarella naturalmente, l’incarico ricevuto il 4 febbraio scorso. C’è una terza ipotesi? Certo, c’è sempre. E cioè che Draghi riconsegni il mandato nelle sue stesse mani dopo essere stato eletto capo dello Stato dal Parlamento in seduta comune. Chissà quale scenario prevarrà. Quel che deve essere chiaro è che sprecare l’occasione offerta dalla Ue e trasfusa nel Pnrr sarebbe un vero suicidio politico. Per tutti.


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